La recente presentazione del progetto di legge sulla partecipazione dei lavoratori da parte della CISL ha indubbiamente il merito di riaprire un dibattito, peraltro mai sopito, relativo all’applicazione dell’art. 46 Cost.
“Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Questo il testo.
La stesura di questo articolo impegnò i Costituenti in diverse sedute, tutt’altro che rituali, prima di individuare un punto di convergenza, che comunque non soddisfò né i liberali né la destra democristiana (il testo definitivo venne approvato in extremis col voto decisivo di Lelio Basso e il consenso di Gronchi e Di Vittorio).
La complessità della discussione derivò anche dalla consolidata esperienza, nei primi anni della ricostruzione, della ramificata e importante esperienza dei Consigli di Gestione, istituiti con il decreto, emanato dalla Repubblica Sociale Italiana il 12 febbraio 1944, sulla socializzazione delle imprese.
Tale decreto, come tutta la legislazione sociale fascista, fu abrogato dal CLNAI il 17 aprile 1945, salvo il principio della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, che attraverso i Consigli di Gestione, mantenevano le stesse prerogative assegnate loro dalla legislazione di Salò.
L’esperienza di questi organismi, più di 500, per lo più costituiti in aziende del nord Italia, durò praticamente fino al 1947, con l’uscita dei comunisti dal governo nazionale e il mutarsi della fase politica; essa terminò anche per il progressivo assimilarsi delle loro funzioni con quelle prettamente sindacali delle Commissioni Interne.
In questo periodo diverse furono le proposte legislative finalizzate a dare piena attuazione al dettato costituzionale di cui all’art. 46.
Tuttavia quella più rilevante e organica, presentata, nel dicembre del 1946 nel pieno dei lavori della III sottocommissione costituzionale, è stata senz’altro quella del deputato socialista Rodolfo Morandi.
In questo progetto di legge, nel quale confluì anche quello presentato nel novembre dello stesso anno dal segretario CGIL Ludovico D’Aragona, si prevedeva la costituzione di Consigli di Gestione in aziende con almeno 250 dipendenti (il numero variava sulla base della tipologia merceologica aziendale) con composizione paritetica tra rappresentanti dei lavoratori e rappresentanti datoriali.
In questa proposta legislativa, senz’altro tra le più avanzate, si prevedeva esplicitamente la incompatibilità assoluta tra i compiti delle Commissioni Interne e quelli assegnati ai rappresentanti dei lavoratori nei Consigli di Gestione (art. 21) oltre l’ “interessante” norma, contenuta nell’articolo 14 del disegno di legge, che proibiva il licenziamento del rappresentante dei lavoratori eletto nel CdiG veniva altresì previsto che lo stesso non potesse ricevere alcun aumento retributivo (salvo quelli concordati collettivamente) e nessun avanzamento di carriera durante il mandato ricevuto e per l’anno successivo alla scadenza dello stesso (ma erano altri tempi..).
Purtroppo quel disegno di legge non ebbe mai successo, e non solo per l’opposizione della destra conservatrice e confindustriale.
Il nodo rimane però ancora quello: se si vuole davvero una proficua estensione del principio della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese occorre affermare categoricamente l’assoluta incompatibilità tra questo e l’attività specifica delle Rappresentanze Sindacali in azienda.
Come scrisse un famoso segretario nazionale della CGIL “A ciascuno il suo mestiere”.
Luigi Marelli