La recente notizia che Intesa Sanpaolo ha revocato il mandato ad ABI per la negoziazione del nuovo Ccnl di categoria è stata associata, da diversi commentatori, alla decisione che fu di Marchione di uscire da Confindustria, con effetto dal 1 gennaio 2012.
Allora, la ragione era che il Ccnl dei metalmeccanici non consentiva di avviare la ristrutturazione necessaria in Fca; oggi la scelta della principale banca del Paese, sembra essere quella di sottrarsi ad una disciplina associativa, per continuare la sua sperimentazione della settimana distribuita su quattro giorni lavorativi. Piccoli segnali ma significativi di una tendenza. Quale?
Il problema sembra essere il delicato equilibrio tra contratto nazionale e contrattazione aziendale o di prossimità che dir si voglia.
Il tema era stato affrontato, in piena crisi economica, dalla promulgazione dell’art. 8 legge n. 148/2011, che aveva consentito, previo accordo sindacale aziendale, anche modifiche “in peius” di istituti definiti dal Ccnl di riferimento. Tale articolo fu fortemente osteggiato dalla Cgil soprattutto, e non ebbe certo una gran fortuna.
Come molti sanno, la giurisprudenza ha sempre consentito le modifiche, negoziate a livello aziendale, migliorative del contratto nazionale, in logica “favor lavoratoris”.
Tuttavia questo orientamento, di fatto, non modificava l’equilibrio tra contratto nazionale e contratto aziendale, poiché quest’ultimo ha tuttora la caratteristica di essere “integrativo” al primo, inteso come addendum e non come sostituivo di parte delle norme gia in precedenza regolate.
La questione di come la contrattazione di prossimità possa derogare al Ccnl è sempre stata una questione aperta e di non facile soluzione, anche per l’ovvio motivo che il primo è gerarchicamente sovraordinato alla seconda fattispecie contrattuale.
Tuttavia anche in altri contesti giuridici ed economici, il tema è apparso in tutta la sua complessità e ha dato luogo ad una pratica, per lo più tollerata dai legislatori e dalle organizzazioni datoriali e sindacali di “opting out”, con la quale opzione l’azienda può non applicare parti del Ccnl per sostituirle con una nuova regolamentazione definita in accodo con i sindacati a livello aziendale. Quale sarebbe quindi la novità? Qui non si tratta di una singola norma modificata in meglio o in peggio, si tratta di un “nuovo equilibrio complessivo” tra la normazione di derivazione nazionale e quella definita a livello aziendale in accordo tra le parti.
Insomma quasi un vestito su misura per ogni singola azienda; senza negare l’ordito del Ccnl, ma anche senza limitarsi ad una pure e semplice applicazione dello stesso.
Certamente occorre precisare in quali condizioni questo sia possibile, scegliendo magari di scommettere su una maggiore autonomia contrattuale dei soggetti sindacali aziendali, con ciò rivitalizzando il loro protagonismo e la loro rappresentanza. Non è un percorso impossibile, anzi in parte sarebbe l’applicazione del “Patto per la fabbrica” rimasto per lo più lettera morta a causa, io credo, della sua intrinseca sterilità.
Per sterilità intendo gli ambiti ristretti (per lo più solo Premio di risultato e Welfare) a cui era condannata l’azione contrattuale di prossimità.
L’istituto dell’ “opting out”, adottato soprattutto nei paesi del nord Europa, a mio avviso, consentirebbe una maggior elasticità contrattuale e una maggior aderenza agli specifici assetti aziendali, senza negare al Ccnl quel compito di tutela universale, da applicarsi dove la contrattazione di prossimità non è ancora in grado di dispiegare la sua matura azione negoziale.
Luigi Marelli