Il diario del lavoro ha intervistato Rocco Palombella, segretario generale della Uilm in merito al tema della riduzione dell’orario di lavoro. Palombella sottolinea come la questione sia stata spesso ostacolata dalle parti datoriali. La recente pandemia, per il segretario, potrebbe essere una occasione per le relazioni industriali di sperimentare un cambio di passo nell’ottica di lavorare meno, lavorare tutti e meglio.
Palombella, il tema dell’abbassamento e una diversa regolazione dell’orario di lavoro è tornato alla ribalta in questi giorni in molti Paesi europei. In Italia a che punto siamo?
In questi anni ci sono tre elementi che hanno determinato spesso rotture e incomprensioni con la parte datoriale: salario, l’orario di lavoro e l’organizzazione del lavoro. Questi macro-temi sono stati affrontati in altri Paesi con una maturità e un sistema partecipativo tale che ha portato grandi risultati, come il miglioramento della condizione dei lavoratori, l’aumento della produttività, la regolazione e lo smorzamento degli esuberi. Qui in Italia invece è quasi un tabù.
In che senso?
Negli anni dove il sindacato metalmeccanico era forte, riuscivamo ad ottenere una riduzione dell’orario di lavoro e la fruizione delle ore di riposo era individuale. Lo scopo del sindacato metalmeccanico era avere una riduzione dell’orario di lavoro generalizzata in tutto il settore e, dato che eravamo l’avanguardia per fare sperimentazioni di questo genere, per gli altri settori eravamo un apripista. Spesso incontravamo resistenze dalle parti datoriali e non abbiamo fatto questo ulteriore passo in avanti. Varie crisi economiche e industriali si sono avvicendate in seguito e invece di fare tesoro di queste conquiste e provare a ridurre l’orario di lavoro, utilizzando al contempo gli ammortizzatori sociali, le aziende si sono via via trincerate nelle loro vecchie posizioni.
Che cosa chiedevano le imprese?
In ogni contratto che abbiamo successivamente rinnovato, le aziende ci chiedevano di monetizzare quelle riduzioni di orario di lavoro. Come per dire, bisogna lavorare più ore. Questo ragionamento era in controtendenza, perché significava tornare indietro rispetto a una impostazione che prevedeva una riduzione dell’orario generalizzata. Arrivando ai nostri giorni e agli ultimi rinnovi del contratto, su questo argomento abbiamo riscontrato un rifiuto totale delle parti datoriali a dibattere su questo tema.
Questa pandemia ha portato a un cambiamento di prospettiva delle controparti?
Non proprio. Poteva essere una occasione incredibile, da una situazione drammatica, per sperimentare forme di riduzione di orario lavoro utilizzando tutti i fondi degli ammortizzatori sociali. Questi fondi hanno sicuramente il merito di sostenere il reddito dei lavoratori ma non affrontano il tema in modo strutturale; infatti sono stati spesi 20 miliardi di euro di cassa integrazione per sostenere il reddito ma questo non è bastato da solo a creare le condizioni strutturali per superare la crisi in corso. Mi auguro che lunedì, quando terremo l’incontro con Confindustria, si affronti non solo il tema dei contratti ma anche, insieme al governo, l’orario di lavoro.
Il governo in questo senso ha dato segnali positivi?
Si, ho salutato positivamente l’apertura che ha fatto il ministro del lavoro nel ritenere l’orario di lavoro una delle leve importanti e fondamentali per la salvaguardia e il rilancio dei posti di lavoro. Ritengo quindi che questo argomento non debba essere più un tabù.
L’Europa può avere un ruolo nel modificare questo aspetto?
Mi rendo conto che questo tema non può essere solo italiano ma europeo, bisogna affrontare tutti insieme i nodi della competitività delle nostre imprese nel sistema europeo e mondiale. Inoltre, visto che la stessa Germania lo pone come uno dei temi da sperimentare, noi con più convinzione dobbiamo spingere per affrontarlo con giudizio, dato che sarà fondamentale per arginare la vera emergenza, cioè il dopo-pandemia.
In che senso?
Quando finiranno i divieti di licenziamento ad esempio, dobbiamo essere pronti a evitare un possibile impatto catastrofico sui posti di lavoro.
In Italia si lavora più ore rispetto a molti paesi europei, Germania in primis, ma abbiamo una produttività inferiore. È quindi possibile spingere Confindustria a cambiare idea sull’orario di lavoro?
Confindustria ci contesta la mancanza di produttività, ma la realtà è che per aumentarla si deve realizzare sia una riorganizzazione del lavoro più efficace e soprattutto un regime di orario di lavoro che non sfrutti le persone. I lavoratori devono avere la soddisfazione di potere lavorare in orari compatibili con le specificità produttive e organizzative del sistema delle imprese, conciliando al contempo le esigenze di vita-lavoro. Ad esempio, se un lavoratore ha dei problemi in famiglia, il solo fatto che l’azienda gli permetta di arrivare in sede un’ora dopo, oppure staccare e poi rientrare per recuperare, è una conquista, e non intacca la produttività ma bensì la aumenta. Trattare le persone come tali, dare fiducia e responsabilizzare il lavoratore, oltre che un segno di civiltà, è anche un volano per la produttività.
Quindi pensa che l’idea di Confindustria, sintetizzabile in lavorare di più uguale produrre di più sia da superare?
Si, è una idea retrograda, e anche se cambiano i presidenti di Confindustria, la musica non cambia. Partono sempre dall’idea dello sfruttamento invece che dalla ricchezza della risorsa e della qualità del lavoro. Usano ancora una logica di vecchio stampo, cioè i lavoratori devono essere sempre presenti e quanto più presenti all’interno della fabbrica: non si rendono conto che il lavoro, anche alla luce del recente smart working, può essere fatto anche da casa, dove il lavoratore diventa una risorsa da valorizzare, non sfruttare. La logica sana è che non si deve andare a guardare il numero delle ore lavorate ma alla qualità del lavoro.
Nel settore metalmeccanico è più difficile inserire lo smart working, considerato che il lavoro spesso si svolge in fabbrica?
Posso assicurare di no, per esempio Leonardo, da quanto ha riportato lo stesso a.d. Alessandro Profumo, ha il 30% dei lavoratori che possono lavorare da remoto. Se ci pensiamo, su un gruppo che ha 35.000 lavoratori, il 30% è un numero spropositato; anzi bisogna iniziare a discutere su come regolamentare questo processo, prima che i numeri diventino ingestibili dalle parti sociali. Certo, non in tutte le lavorazioni si può fare questo discorso, come nella catena di montaggio o in un lavoro strettamente manifatturiero, però ci sono tante lavorazioni dove è possibile per il lavoratore gestirsi l’orario in forma autonoma. Nel rinnovo del contratto nazionale, anche se lo smart working non lo abbiamo inserito nella piattaforma, penso debba essere considerato un elemento di discussione a tutto campo, dove si inserisce anche la gestione degli orari di lavoro.
Sul tema della prospettiva, c’è quindi qualche speranza nel vedere alla ribalta questo tema?
Penso di si, ci sono ad esempio diverse aziende in Italia, molto lungimiranti, che chiedono ai lavoratori di non timbrare il cartellino. Certo, per regolare l’orario di lavoro in modo strutturale c’è bisogno di una Confindustria e una Federmeccanica che sia un poco più avanti nell’affrontare questo tema. Dobbiamo chiamare in causa anche il Governo, perché se si muovesse in questa direzione risparmierebbe anche su tutti i fondi della cassa integrazione, della disoccupazione e inoltre i lavoratori sarebbero più legati alla fabbrica con una riduzione dell’orario. Smettiamo una buona volta di considerarli solo un costo da cui liberarsi.
Emanuele Ghiani