Il mondo della produzione è diviso in due grandi parti, da un lato la grande impresa, dall’altra l’impresa diffusa. Le partizioni di una volta, industria, terziario, artigianato, non valgono più, ormai l’imprenditore si iscrive alla sigla forte nel suo territorio. Il punto è che la politica continua a guardare sempre e solo alla grande impresa, con il risultato che le piccole imprese devono spendere tempo, energie e risorse per adattare alle loro esigenze i provvedimenti assunti. Otello Gregorini, segretario generale della Cna, una delle due grandi associazioni di artigiani, non ha dubbi sulle trasformazioni che hanno caratterizzato l’economia italiana, ma c’è una cosa che lo preoccupa, che la disaffezione crescente dei cittadini verso la politica finisca per colpire tutti i livelli di partecipazione democratica, quindi anche le associazioni di imprenditori, che non a caso perdono iscritti. Per questo crede che la politica debba adeguare la propria visione dell’economia, così come le associazioni imprenditoriali debbano recuperare alcuni loro elementi valoriali che si sono allentati.
Gregorini, come sta l’artigianato?
Bene, gode di buona salute. Ma abbiamo vissuto periodi più felici.
Quando?
Per esempio, quando prendemmo la scelta più importante del mondo dell’impresa diffusa degli ultimi quarant’anni. Quando cioè, 13 anni fa, creammo Rete Impresa Italia, la sigla che racchiudeva le associazioni di artigiani e commercianti. Una decisione vincente per il nostro mondo.
Un’avventura che però è finita male. L’avete chiusa.
Stiamo lavorando per recuperarla. Ma vanno battute strade nuove, non si può pensare di ricalcare quelle percorse tanti anni fa. Serve, inoltre, una lungimiranza che non è facile raggiungere.
Come ci riusciste 13 anni fa?
Si era creato un contesto favorevole. Noi di Cna siamo sempre stati convinti dell’opportunità di stare assieme. Qualche altra associazione si è convinta più tardi. Tutto l’artigianato pensò che fosse maggiormente preferibile stare dentro che fuori da questa esperienza. E così il commercio. E prendemmo questa grandissima scelta.
Ma perché è fallita?
Commettemmo un errore, nello statuto inserimmo una clausola che prevedeva la possibilità di un ripensamento dopo dieci anni.
Perché un errore?
Ho detto errore, ma mi correggo. Il punto è che dopo dieci anni assieme avremmo dovuto fare necessariamente un passo in avanti. Far contare di meno le cinque sigle associative e valorizzare la sigla comune. Non ci riuscimmo.
Perché è importante stare tutti assieme, presentarsi con una sola sigla?
Perché assieme abbiamo una massa d’urto più forte, contiamo di più. E perché siamo già intimamente connessi. Il 12% dei nostri iscritti appartiene al mondo del commercio e il 7% degli iscritti alle associazioni del commercio appartiene all’universo dell’artigianato.
Come mai si determina questa osmosi?
Perché i vecchi perimetri sono superati, adesso l’imprenditore si iscrive alla sigla forte presente nel suo territorio. La vera discriminazione è tra la grande impresa e la piccola.
E voi non siete soddisfatti di come venite riconosciuti dalla politica.
No, non abbiamo sufficienti riconoscimenti dalla politica e questo è un errore che pesa sul futuro del nostro paese, perché se si sbaglia la fotografia del paese si sbaglia anche quando si prendono le decisioni importanti. In Italia il 99,4% delle imprese conta meno di 50 dipendenti, con quasi dieci milioni e mezzo di lavoratori, il 63,2% del totale. Eppure da 40 anni la politica guarda solo alla grande impresa e prende provvedimenti pensando sempre alla grande impresa. Questo è un errore, perché noi dobbiamo poi spendere tempo, energie, risorse per adattare alle nostre dimensioni quelle scelte.
Ma perché la politica commette questo sbaglio?
Vale sempre la regola del divide et impera. Se ci tiene divisi, una certa politica è più libera di fare quello che ritiene giusto per lei.
Ma voi siete contro la grande impresa?
Assolutamente no, pensiamo che la grande impresa sia indispensabile per competere nel mondo. Anzi, riteniamo che nel nostro Paese ci sia troppa poca grande impresa. Ma questo non deve far sottovalutare la nostra realtà e le nostre esigenze. E poi c’è anche un altro motivo che ci spinge a insistere.
Quale?
La disaffezione dei cittadini verso la politica sta diventando disarmante, ma questo fenomeno interessa tutti i livelli di partecipazione democratica, anche noi. È molto probabile, e sta accadendo, che l’imprenditore non si riconosca appieno nel nostro sistema di rappresentanza.
Avete disaffezioni?
In vent’anni gli iscritti alle cinque sigle che dettero vita a Rete Impresa Italia sono calati sensibilmente. Adesso aderisce a un’associazione di categoria solo il 30% delle imprese. Una tendenza molto negativa, di cui tutti dovremmo farci carico.
Con Rete Impresa Italia avevate più ascolto?
Sì, anche se ci abbiamo messo un po’ a far capire chi eravamo. E anche adesso tanti ministri in carica pensano che siamo ancora legati da quella sigla.
Ma perché questa disaffezione?
Fino a qualche anno fa, prima della crisi finanziaria del 2008, il sistema paese, cittadini, famiglie, imprese, tutti avevano una lettura favorevole dell’artigianato, eravamo visti come una cosa positiva, la percezione diffusa era che questo tipo di attività dava sicurezza.
E poi?
Da dieci, quindici anni nessuno pensa che nel proprio progetto di vita ci sia l’artigianato, l’impresa, anche nelle famiglie di imprenditori non si insiste perché i figli facciano il lavoro dei padri. Si guarda altrove.
Ma l’artigianato è un’altra cosa, è creazione.
Sì, ma questo messaggio non arriva più. Abbiamo perso alcuni elementi valoriali.
Le scuole tecniche chiudono perché non ci sono alunni o non ci sono alunni perché le scuole tecniche non ci sono più?
Valgono tutti e due gli assiomi. Ma il problema vero è la mancanza di lavoratori. Viviamo un’emergenza che è iniziata con il Covid, poi il Covid è finito ma l’emergenza è continuata. Ci mancano almeno 200mila persone ogni anno. Dovremmo riuscire a muovere le persone che non lavorano, che restano a casa. Ma le famiglie non ci sentono, preferiscono che i loro figli aspettino, non si sa cosa però.
Resta il ricorso all’immigrazione.
A noi gli immigrati servono. Sono stati aumentati i flussi, ma sono comunque insufficienti rispetto alle nostre esigenze. Abbiamo un progetto per favorire la preparazione di lavoratori nei Paesi di origine, per poterli avere al di fuori dei flussi e già formati. Potrebbe essere una soluzione.
In questa carenza di manodopera quanto pesa il fatto che i salari sono bassi?
I nostri contratti prevedono salari adeguati e gli artigiani per tenersi un lavoratore lo pagano sempre di più. Ma non è giusto che la prima domanda che ci fa un giovane che sta per essere assunto sia quale sarà il suo salario. Una volta era diverso, si era contenti di apprendere un lavoro, di inserirsi in una realtà operativa importante, che dava sicurezza.
Gregorini, l’economia va bene? Lei è fiducioso?
Io sono un ottimista, ma resto con i piedi per terra. Adesso stiamo vivendo una fase positiva, anche grazie al turismo, e andrà avanti così per tutta l’estate. Per l’autunno nutro qualche preoccupazione. Abbiamo dei problemi aperti di una qualche complessità, l’inflazione e il costo del danaro, troppo elevato. Il Pnrr non ci ha coinvolto come avrebbe potuto. Le modifiche al Piano approvate dalla cabina di regina a Palazzo Chigi recepiscono, però, alcune nostre, importanti proposte presentate per accelerare la capacità di messa a terra delle risorse rispettando le scadenze del Piano. Nello specifico il sostegno all’autoproduzione di energia da fonti rinnovabili per l’autoconsumo sfruttando l’enorme potenziale offerto dalle piccole imprese. Oltre a velocizzare la capacità di spesa, la misura offre l’opportunità di accelerare il processo della transizione green attivando ingenti investimenti aggiuntivi da parte delle imprese private e producendo uno straordinario effetto leva a beneficio dell’intera economia. Secondo stime della CNA possono essere coinvolte circa 200mila micro e piccole imprese con una nuova potenza installata di quasi 9 GW, senza consumare territori.
Cosa vi manca?
Ci servono delle certezze. Sta calando la voglia di intraprendere, si investe sempre meno, la fiducia delle imprese sta diminuendo, deve risalire. L’impresa diffusa può e deve essere il centro della spinta del paese in crescita.
Avete buoni rapporti con Confartigianato, l’altra grande centrale degli artigiani?
I rapporti di vertice sono ottimi, condividiamo il 90% delle proposte che portiamo al governo. Sui territori è più difficile, c’è una quotidiana competizione che allontana, non avvicina. Il punto è che, al vertice come in periferia, noi condividiamo per opportunità, non per convinzione. L’artigiano, se può, fa da solo. Dobbiamo imparare davvero che stare assieme conviene a tutti.
Massimo Mascini