Pier Paolo Baretta
Vi sono due modi per leggere il “Manifesto del lavoro in una economia sociale di mercato”, proposto nel febbraio scorso da un gruppo di intellettuali e presentato in un seminario aperto alle diverse forze sociali
Il primo, tutto congiunturale. La prossimità delle elezioni e la contiguità con Forza Italia degli estensori principali hanno indotto molti ad una lettura strumentale, o ipercritica o iperfavorevole Era inevitabile che ciò accadesse. Peraltro gli stessi firmatari non hanno nascosto l’uso politico che intendono fare di questo documento che vuole essere, nelle loro dichiarate intenzioni, un contributo al programma di un eventuale governo di centro destra. Per la verità c’è, nel gruppo che fa capo a Free e a Renato Brunetta, una ambizione ancora maggiore. Quella di candidarsi ad essere i depositari di una linea di dialogo sociale all’interno di uno schieramento fortemente segnato da una cultura liberista, in competizione con l’altra componente “sociale” della coalizione rappresentata da Alleanza Nazionale. E’ un tentativo che non va sottovalutato. Nel caso, infatti, di una vittoria del centro destra, tra le molte incognite che ci riserverà un governo Berlusconi, la gestione dei problemi sociali si presenta al tempo stesso decisiva e aperta a molti esiti, anche tra loro contraddittori. L’attivismo del professor Tremonti che si è lanciato, in questi giorni, in spericolate incursioni sul modello sociale che dovrebbe, a suo dire, rimodellarsi sulla base di un principio generale di individualità nei rapporti di lavoro, non lascia ben sperare. La proposta di definire un nuovo impianto legislativo che favorisca la diffusione di massa dei contratti individuali è bertinottiana nella forma (la legge sopra la contrattazione) e incompetente nella sostanza. Non perché, come dice anche il Manifesto, che pur sostenendo lo sviluppo dei contratti individuali non raggiunge la spregiudicatezza tremontiana, non ci sia da mettere da mettere le mani al modello di relazioni industriali.
Io stesso penso che il modello contrattuale previsto dall’accordo del 23 Luglio ’93 sia oggettivamente superato dalla realtà e vada completamente rifatto. Ma perché la rivisitazione delle tutele e delle regole raggiunga una efficacia cogente e propulsiva per la competizione internazionale deve essere fortemente motivante dell’intero sistema. Una mediazione sociale collettiva è di gran lunga il sistema migliore e più veloce per raggiungere l’obiettivo della modernizzazione. Che il sindacato debba snellire la sua capacità di decidere e debba essere più orientato a cogliere le sfide che ci vengono poste dalla economia globale è un fatto. Ma è ancor più inconfutabile che una ricetta fondata sulla individualità dei rapporti di lavoro, oltre che impraticabile, è la più sicura anticamera del corporativismo, che non è propriamente il meglio in termini di efficienza e di responsabilità. Se non bastasse, il candidato premier del Polo ha, recentemente, nel suo discorso alla assemblea degli industriali di Parma, operato una identificazione così politicamente stringente con la Confindustria che, indipendentemente dal merito, rischia di diventare una gabbia per entrambi. Se ha torto Cofferati che, utilizzando categorie politiche, bolla l’alleanza in sé, mentre sul merito delle proposte di Parma c’è molto da lavorare, è ben vero che le strade del conflitto sociale sono più lastricate di buone intenzioni che non quelle dell’inferno!
Il tentativo, dunque, di Brunetta e soci si presenta arduo e trova un terreno scivoloso proprio in casa propria. Ma è anche vero che, dopo i clamorosi errori del 1994 c’è da aspettarsi da un eventuale governo Berlusconi una maggiore cautela e competenza. Ed è proprio sulla scarsità di competenze interne al Polo sul merito e soprattutto sulle forme del confronto sociale che punta la propria carta il gruppo di Free che, in ogni caso, ha nei confronti del sociale una attenzione che viene da lontano e che gode, su questo piano, di una credibilità maggiore di tanti altri.
E’ certamente utile che, proprio in vista delle elezioni, ci sia chi, dall’interno del Polo, vuole discutere a voce alta e con tutti, proponendo una linea esplicitamente orientata, al dì là delle soluzioni proposte sui singoli problemi, alla coesione sociale più che al conflitto. Anche una lettura esclusivamente congiunturalista dovrebbe far guardare con interesse a questo tentativo, soprattutto da parte delle Confederazioni, se è vero, come deve essere vero, che il sindacato deve preoccuparsi prima di tutto del merito e dei contenuti e sulla base di questi giudicare l’operato della politica e dei governi.
Ma vi è un secondo modo di leggere il Manifesto. Ed è quello che per la verità mi sembra il più interessante, di ripensare oltre la immediatezza le relazioni sociali in una chiave… rifondativa. Partendo dall’assunto che tutto è già cambiato nella realtà e che “la ricerca e l’attuazione di politiche sociali idonee ad accompagnare le grandi trasformazioni in atto nell’economia globale” rappresentano la sfida per la politica, le istituzioni, i governi e le parti sociali, si arriva alla conclusione che “moderne ed efficienti politiche sociali e del lavoro sono non solo strumenti fondamentali per la tutela dell’individuo, la riduzione delle ineguaglianze e la coesione sociale, ma pure fattori ineludibili di competitività e, quindi, di crescita economica”. Le politiche pubbliche governative, dunque, si misurano con le disuguaglianze, con i diritti e la governabilità. La incapacità di affrontare e risolvere gli squilibri non produrrà più libero mercato, ma meno mercato.
Vi è in questo approccio una lettura dei fenomeni sociali e dello sviluppo economico post reganiana.L’epoca di Clinton forse non è passata invano e il modello di sviluppo economico e sociale europeo può ancora rappresentare un punto di riferimento, se opportunamente aggiornato. Sbaglia D’Alema a indicare Tony Blair come un continuatore della socialdemocrazia, ma, d’altra parte, solo Berlusconi riesce a dire che lo stesso Blair è il vero erede della signora tatcher. La verità è che la globalizzazione che si è prepotentemente imposta dopo la caduta del muro di Berlino segna una rottura con i modelli di mercato, con le forme di organizzazione capitalistica, con i modelli di governo del consenso politico e della sua rappresentazione istituzionale tipici del passato anche prossimo.
In questa discontinuità sono contenuti tutti i rischi del pensiero unico liberista, ma anche tutte le opportunità di una economia sociale di mercato. E’ una dura battaglia politica quella che si giocherà, a livello globale, nel prossimo decennio. Dentro questa battaglia politica la trasversalità delle posizioni in campo, del pensiero e delle alleanze riserverà sorprese ed andrà ben oltre gli schieramenti elettorali. Certamente ben oltre la polarizzazione tra centralismo, tecnocrazia e liberismo che sembrano essere le rappresentazioni che di sé danno, anche a livello europeo, la sinistra e la destra.
Ritessere le fila di un nuovo riformismo sociale che assuma in origine del proprio pensare ed agire la solidarietà, la giustizia sociale, il libero mercato, la iniziativa personale, la regolazione sociale collettiva (pubblica e privata) come un unico progetto e non come una serie di vincoli tra loro contrastanti che, nel migliore dei casi, debbono mediarsi tra loro, rappresenterà la vera svolta.
La “legittimazione sociale” del processo di globalizzazione consiste, allora, nel dare a ciascuno “piena cittadinanza” attraverso il lavoro e la sicurezza sociale e non attraverso “precarie soluzioni assistenziali”. Per dirla con Ianus, il banchiere dei poveri. “i poveri, più che di assistenza, hanno bisogno di un prestito”. Ma ciò implica scegliere inequivocabilmente il dialogo sociale e la “convergenza”.
Si tratta di un quadro teorico e valoriale che compare nelle premesse del Manifesto, anche se poi, contraddicendosi con una clamorosa e colpevole… ingenuità, mette assieme, indistintamente, la Banca mondiale, il fondo monetario, il Wto e l’ OiI tra i sostenitori di queste prospettive. Sappiamo bene, a partire dalle tipologie dello sviluppo e delle successive crisi della Thailandia e della Corea o dalle forme imposte alle nascenti e deboli economie dell’Est Europa e del terzo mondo, quali disastri sono riuscite a fare proprio le istituzioni economiche internazionali, favorendo protezionismi industriali, neo colonialismi finanziari che nemmeno i professori liberisti della scuola di Chicago si azzardano a teorizzare. Si pensi al rifiuto, in occasione della assemblea di Seattle del Wto, di accettare tra i parametri del libero scambio la clausola sociale pur sostenuta dall’Oil.
Poiché gli estensori del Manifesto sono persone di grande preparazione intellettuale sono costretto a pensare che questo strafalcione sia indotto da una prudenza politico diplomatica che però introduce una ambiguità nel documento stesso. Certo nè Woityla, né Somavia (il direttore dell’Oil) se la fanno con il sub comandante Marcos, ma nemmeno sono assimilabili alla grande finanza globale e a quelle Istituzioni che hanno prodotto il drammatico debito del terzo mondo e sono responsabili di una applicazione diseguale dello sviluppo globale.
Ma vi è un altro punto nel quale gli estensori commettono una imperdonabile leggerezza. Colpiti, evidentemente, da uno zelo radicale (più che riformista!.) per il cambiamento, pronunciano una condanna sommaria della storia del diritto del lavoro italiano e della sua evoluzione. Dopo aver salvato storicamente (e si capisce perché) lo Statuto dei lavoratori, distruggono con livore tutto il periodo successivo. Ora se è ben vero che “il diritto del lavoro ereditato da un passato remoto e recente, è inidoneo a conciliare le istanze di tutela con le esigenze della modernizzazione dei processi di produzione e circolazione..”. non è vero che la sola causa (la sola citata!) di tale inadeguatezza derivi da “insormontabili veti da parte del movimento sindacale che hanno ben presto arrestato ogni disegno riformatore”. Anche qui le omissioni e le parzialità non sono neutrali. A cominciare dal vizio diffuso di utilizzare la definizione generica di “movimento sindacale” quando è palese che da anni, proprio sul punto dell’innovazione delle regole esistono strategie differenti almeno tra la Cisl e la Cgil, che meritano di essere esplicitamente prese in considerazione se si vuole costruire una prospettiva libera e non strumentalmente piegata a convenienze politico elettorali. Ma sarebbe di altrettanta utilità discutere in chiaro dei ritardi del sistema economico e industriale. Il sistema bancario, innanzi tutto. Come e talvolta di più della burocrazia, il sistema del credito rappresenta la vera palla al piede per lo sviluppo degli investimenti economici, sia delle imprese, in particolare quelle medio piccole, sia dei singoli. Ma anche il sistema produttivo vero e proprio ha negli anni scorsi manifestato clamorose inadeguatezze e deviazioni. Ancora oggi nonostante le pubbliche polemiche, una parte della Confindustria è, di fatto, l’altra faccia della Cgil. I falchi si sostengono a vicenda.
Per rompere questo schema, che impedisce un nuovo progresso civile, non ci si può trincerare dietro omissioni di convenienza o giudizi globali. ma è necessario entrare nel merito; coraggiosamente distinguere e riconoscere. Tra un conflitto sociale ricercato con cura ogni giorno o il patto tra i produttori di trentiniana memoria e la attuale esigenza di un nuovo modello sociale fondato sulla reciproca assunzione di responsabilità e la partecipazione c’è un bella differenza. Ma è di quest’ultimo che ha bisogno oggi il Paese.
Passare dallo Statuto dei lavoratori ad uno Statuto del lavoro è in sostanza la proposta operativa contenuta nel Manifesto. Meno regolamenti e più indirizzi è il metodo consigliato. All’interno di questo quadro metodologico condivisibile vengono individuati gli obiettivi strategici.
Conviene soffermarsi su tre punti critici che dovranno essere ulteriormente discussi ed approfonditi. Il primo riguarda la flessibilità del mercato del lavoro ed in particolare la disciplina del licenziamento. E’ accettabile l’idea di organizzare meglio la flessibilità, di innovare gli strumenti contrattuali finalizzando alla formazione anche i nuovi ammortizzatori sociali e concludere la liberalizzazione del collocamento (sul quale, per la verità, si sono fatti molti passi proprio in questi ultimi anni). E’ anche interessante l’idea di rafforzare le procedure di conciliazione ed arbitrato per dirimere le controversie da lavoro. Ora, in un quadro così ridefinito, nel quale la flessibilità è davvero al centro delle politiche del lavoro e le procedure dirette assumono un carattere preventivo ed esaustivo, è ipotizzabile che il ricorso al giudice del lavoro, per le fattispecie riconducibili al reintegro, si riducano drasticamente. Appare, quindi, inutile continuare a proporre ancora il superamento del reintegro, scambiandolo con un bonus economico, per quanto rivalutato. Ciò di fatto che ci interessa è che, se il lavoratore lo vuole, vi sia continuità di lavoro (non necessariamente di quel lavoro) nella sua vita professionale. Dobbiamo ammettere onestamente che siamo in mezzo ad un guado e che la zattera del reintegro è talvolta la sola possibilità, nei casi, ovviamente, di buona fede e di debolezza sociale, per non affogare. Sarà anche un sistema vecchio ma un nuovo sistema che interrompesse la garanzia lascerebbe scoperta soprattutto la generazione di mezzo e le categorie meno professionalizzate. D’altra parte in una struttura del mercato del lavoro nella quale oltre la metà degli assunti entra al lavoro con contratti a tempo determinato, la flessibilità anche in uscita è parzialmente, ma non marginalmente, disponibile per gli imprenditori.
Il secondo punto di merito riguarda la riforma dell’intero sistema di relazioni contrattuali. Il Manifesto propone una serie di aspetti che dovrebbero essere cambiati. Molti sono condivisibili, alcuni meno, ma personalmente penso che sia urgente definire una generale riforma del sistema contrattuale. Ci serve un livello contrattuale nazionale più snello più semplificato. Nuove aree merceologiche più accorpate, anche nella rappresentanza, potranno favorire nuovi contratti nazionali più regolatori che gestori. Definire in questi nuovi contratti nazionali le regole ed i minimi di accesso al lavoro ed i criteri di base della competizione relativi ai costi e alle normative ed affidare ad un livello decentrato, di azienda o di territorio, la parte di gestione del mercato e delle tutele integrative, esplicitamente ancorate ai risultati. Questa impostazione va irrobustita dalla adozione condivisa delle regole sulla Società europea e sugli statuti della partecipazione previsti dall’accordo di Nizza.
Il terzo punto riguarda il modello di Welfare. Il Manifesto si sofferma sostanzialmente sulle pensioni proponendo soluzioni strutturali, quali il passaggio dal sistema di ripartizione a quello a capitalizzazione, proponendo l’introduzione del contributivo pro-rata e la liberalizzazione del TFR.
Il primo punto (la capitalizzazione) salta completamente l’appuntamento della verifica prevista per quest’anno, ma in ogni caso merita un confronto. Non condivido, invece, la proposta di introdurre il contributivo pro-rata, perché dai calcoli risulta chiaro che la fascia più prossima alla conclusione della carriera lavorativa risulterebbe sensibilmente penalizzata sul piano economico Anche sul Tfr…libero osservo che se si vuole davvero favorire la seconda gamba della previdenza complementare sarà necessario disporre contrattualmente dell’uso di quote del TFR.
Trovo, infine, interessante lo spazio dedicato ai servizi alla persona, all’interno di una strategia per l’occupazione, ma sarebbe necessario discutere di più delle forme e della qualità di questi servizi. Il che richiama, in sostanza, una discussione ben più ampia sul ruolo dello Stato, del pubblico e sulle logiche etiche della iniziativa privata.
In sostanza la storia della economia sociale di mercato, pur con alle spalle una lunga tradizione, è ancora tutta da scoprire e la ricerca della sua affermazione sarà tortuosa, piena di insidie e di contraddizioni. Ma, pur partendo da angolature e posizioni differenti, è il momento di cominciare.