Frédéric Pajak è nato a Suresnes, banlieue ovest di Parigi. Compie in questi giorni 67 anni. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti, ma per poco, sei mesi appena, l’ambiente lo opprimeva. Poi una vita di vagabondaggi, cento mestieri. “Da giovane ero un pezzente”, racconta. “Un precario, uno che il capo volendo può cacciare”. Trasportatore, manovale, fattorino in un mattatoio, cuccettista sui treni notturni, aiutante in una tipografia. “Ho attraversato momenti di disperazione. In seguito, ho conosciuto la povertà. Non sono riuscito a pagare l’affitto. Ho avuto fame. Ho mendicato per mangiare. Ho conosciuto l’ingiustizia, la brutalità. Ma non me ne lamento”.
Una penna e una matita come compagne di vita. Testi e disegni, legati assieme, per descrivere la realtà in bianco, nero e grigio. Da bambino sognava “un libro fatto di parole e immagini”. Se non lo si vuole ritenere l’inventore del saggio grafico, quantomeno, secondo Le Nouvel Observateur, bisogna ammettere che ha portato questo genere di narrativa “alla sua forma più perfetta”. In Italia, la casa editrice L’Orma ha pubblicato “Manifesto Incerto”, una fantasmagorica trilogia, inframezzata da ricordi, apparizioni, personaggi, citazioni, che costituisce nel complesso un’ode a Walter Benjamin. Quella tra il filosofo e lo scrittore-disegnatore è un’affinità elettiva. Basata sull’inquietudine esistenziale, la ricerca continua, il rifiuto della violenza, l’amore per la libertà, la vicinanza ai diseredati, le sfavillanti intuizioni, il desiderio di trovare un filo comune, le critiche all’ideologia del progresso, il prezzo da pagare per la propria coerenza.
“Comprendere e accettare come propria storia la Storia dell’intera umanità”, annota Pajak. E cita il Nietzsche della Gaia scienza: “Prendere tutto questo sulla propria anima, il più antico come il più nuovo, le perdite, le speranze, le conquiste, le vittorie dell’umanità, possedere infine tutto ciò in una sola anima e tutti insieme stringerlo in un unico sentimento. Questo dovrebbe avere come risultato una felicità che finora l’uomo non ha mai conosciuto”.
E invece “viviamo in un’epoca che conosce solo il proprio presente, un presente espulso dal passato e privato del futuro”. Benjamin parlava di “tempo omogeneo e vuoto”. Aggiunge il suo geniale cantore; “Non c’è più ieri. Non c’è più domani. Resta solo l’oggi, che farà spazio al giorno seguente, a sua volta dimentico del giorno trascorso”.
La felicità, la disperazione, il desiderio, il dolore, la gioia, la paura, la tristezza, la stupidità, l’impazienza. Sono “gli spiriti sepolti nelle viscere della terra” che hanno deciso di tornare al mondo: “Insieme formano una specie di coorte e portano tutti il nome di un sentimento potente”. Ed ecco la fatica, “una donna alta e smunta, gli occhi rossi di lacrime, i capelli simili a una balla di fieno bruciacchiata”. La pietà ha preso domicilio sulla collina, nella dimora che era appartenuta alla bontà.
Pajak è un visionario. E la sua potenza evocativa sprigiona da ogni pagina. Ritratti di personaggi famosi, volti anonimi, paesaggi, fantasmi, alberi, macerie, navi, strade, montagne, nuvole, case, oggetti. Il chiaroscuro delle chine introduce, supporta e si amalgama con l’asprezza poetica, la tenerezza narrativa, la profondità culturale, la sapienza biografica.
Eppure, le sue opere, che ora attirano premi ed encomi, prima di essere date alle stampe si sono scontrate a lungo con un cinico ritornello: “Scarsa appetibilità commerciale”.
In un articolo sui surrealisti, nel 1929, Benjamin sosteneva che essere rivoluzionari significasse “organizzare il pessimismo”. È quel che fa Pajak, dando speranza anche lì dove racconta il dolore delle vittime e denuncia l’abiezione nazifascista. E visto quel che ci circonda, merita almeno gli auguri di buon compleanno. Governo permettendo.
Marco Cianca