Nel 1960, “Il Tempo”, allora autorevole quotidiano della destra, allegò al giornale un libro dal titolo “La Cina, incubo del mondo”. Era la traduzione italiana di un testo scritto da Lucien Bodard, nato a Chongquing, figlio di un console, famoso reporter di France Soir. Il suo libro, negli anni del maoismo imperante, la cui fascinazione impregnava l’intellettualità europea, suscitò feroci polemiche. L’autore era pervaso da una sorta di schizofrenia, amore per il grande Paese che gli aveva dato i natali, paura per gli esiti futuri di quel che stava accadendo.
In esergo, nel volumetto, tre citazioni, con le fotine degli autori. Mussolini (1934): “Quale sorte attende la Cina? L’avvenire della civiltà dipende dal compito che i cinesi si assumeranno in questo secolo”. Churchill (1953): “Tra massacri e caos, lo stato più popoloso del mondo, la Cina passò in mano comunista”. Mao Tse Tung: “Il comunismo non è amore. È una mazza che dobbiamo impugnare per distruggere il nemico”.
Bodard così concludeva la sua opera: “Grava sulla Cina un’antica fatalità. Gli uomini vi sono troppo numerosi, la natura troppo avara. I cinesi avranno sempre la tentazione di forzare il destino con la violenza. Conosciamo ormai la minaccia. Ma che farà? Crolli o trionfi il maoismo, il problema cinese aderirà ormai al mondo come la camicia di Nesso. Sarà questa, in avvenire, per l’intera umanità, la questione più grave e più difficilmente solubile”.
Sono passati oltre 60 anni da quando fu vergata questa profezia. Le immagini del trionfante Xi Jinping, che parla ai delegati del XX congresso con alle spalle un’enorme falce e martello, sgomentano. Come fanno rabbrividire quelle del suo predecessore, Hu Jintao, portato via di peso coram populo. Il nuovo “grande timoniere” resta ancor più saldo alla guida del partito e dello stato, un’identificazione che supera ogni teoria marxista-leninista e getta ombre persino sul delirio stalinista. È l’ultima versione del comunismo reale o la prima di un capitalismo nazionalista portato alle estreme conseguenze?
La Cina è vicina, era il titolo del film che Marco Bellocchio diresse nel 1967. Ma le ambizioni, i sogni, le ipocrisie piccolo borghesi, oggi, non potrebbero avere alcun riferimento, nemmeno ironico, di questo tipo. Siamo di fronte ad una dittatura le cui ramificazioni commerciali e militari si estendono a macchia d’olio. L’Africa è di fatto vittima di questo nuovo colonialismo. Una recente pellicola prodotta dal regime esalta le avventure di un agente segreto che proprio nel Continente Nero sfida e sconfigge i rivali americani. Uno 007 dagli occhi a mandorla. Maestro di Kung Fu, ovviamente.
Propaganda culturale, esibizione di forza militare, investimenti senza confini. Nello scorso dicembre, Milena Gabanelli e Danilo Taino hanno dimostrato come Pechino, dal 2001 membro del Wto, viola tutte le regole commerciali, dai furti di brevetti agli aiuti per le proprie imprese, mettendo fuori mercato la concorrenza straniera. Tra complicità e connivenze, sono dominatori incontrastati, con in mano anche una grossa quota del debito americano.
Quel che è accaduto a Wuhan, l’origine del Coronavirus, resta nel mistero. È invece incontrovertibile che gran parte delle mascherine usate in Occidente per evitare il contagio abbiano il loro marchio di fabbrica. I rapporti con Putin, e l’ambigua posizione sull’Ucraina, sono la grande incognita nella ricerca di una soluzione pacifica. Taiwan trema. Le minoranze etniche, come gli uiguri, vengono perseguitate. La dissidenza interna non ha scampo. La foto di piazza Tienanmen, giugno 1989, con lo studente fermo davanti ad un carro armato, resta un terribile simbolo.
Paolo Garimberti, su Repubblica, avverte: “La trappola di Tucidide (un conflitto tra Cina e Stati Uniti, ripetizione in chiave moderna di quello dell’antichità tra Sparta e Atene) sembra difficilmente evitabile. Gli esperti militari di Washington non si chiedono più se accadrà. Ma quando accadrà”.
Verrebbe da obiettargli che a decidere tutto è in realtà il dio denaro. E che apparenti interessi contrapposti possono, sotto sotto, essere convergenti. Gli affari sono affari. Non si tratta di uno scontro tra democrazia e autarchia, favola per bambini, ma del modo migliore per fare affari. In un mondo dove lo sfruttamento e la miseria, qualunque bandiera venga innalzata, la fanno da padroni.
“Alla ricerca del toro”, un antico testo della tradizione buddista, ricorda che “le acque di tutti i fiumi fluiscono insieme nel grande mare”. E il poeta Ai Qing, che partecipò alla lunga marcia, in un verso sollecitava così: “Io dico, che qualcuno accenda le fiamme della fame”.
La speranza è riposta nei popoli, non negli Stati. Ancora Ai Qing: “Milioni di figli della terra/da pendio a pendio/da campo a campo/ cercano, cercano/ un’erba, una foglia”.
E se Mao, quello vero, tornasse d’attualità?
Marco Cianca