È stata recentemente approvata la direttiva europea per il work-life balance. Una direttiva che per Liliana Ocmin, responsabile Cisl del Dipartimento Politiche Migratorie Donne Giovani e Coordinamento Nazionale Donne, ha dei punti positivi e segna un cambio di rotta significativo, per essendo ancora presente delle zone d’ombra. bisogna riconoscere il notevole sforzo politico indirizzato a rafforzare un modello sociale più vicino all’esigenza della famiglia in Europa, dove lavoratori e lavoratrici condividano, le responsabilità di cura dei bambini ed i familiari bisognosi di assistenza. Per Ocmin la vera sfida è superare quelle barriere culturali che nel nostro paese affossano ancora le politiche di conciliazione e incrementano la disparità di genere nel mercato del lavoro sia nell’accesso che nella sua permanenza anche dopo la maternità. La formula vincente è più lavoro alle donne uguale più natalità perché le donne che non lavorano non fanno figli.
Ocmin è stata approvata la nuova direttiva europea per il work-life balance. Quando è iniziato tutto l’iter e come si è svolto?
L’iter, iniziato nel 2017, è stato molto lungo e in certi passaggi anche complicato. Senza contare gli anni precedenti dove più volte è stata arenato l’iter. Alla fine si è giunti all’approvazione, e questo è senz’altro un fatto positivo. La direttiva rientra infatti all’interno del pilastro sociale europeo, ed evidenzia un cambio di rotta significato nelle politiche di conciliazione.
Per quanto riguarda i contenuti, come valuta la direttiva?
Ci sono dei buoni elementi. Il congedo parentale riservato al padre viene innalzato a 10 giorni e viene prevista la copertura totale, l’indennità come avviene per la malattia. Si riconosce, inoltre, anche un maggiore flessibilità per chi deve prendersi cura dei familiari Per quanto riguarda l’età̀ dei figli per cui si richiede il congedo, il testo prevede un approccio evolutivo, innalzando l’età̀ dagli attuali 8 a 12 anni. Non mancano, tuttavia, delle zone d’ombra.
Quali nello specifico?
Va precisato che rimarranno in vigore le disposizioni legislative nazionali, quando più̀ favorevoli ai lavoratori e alle lavoratrici. La Direttiva infatti prevede anche quattro mesi di congedo parentale, di cui due non trasferibili e remunerati, quindi in questo caso i governi dovranno prevedere un’indennità̀ “adeguata” a garantire un livello dignitoso di vita che incoraggi ambedue i genitori a usufruire dei congedi. Per averne diritto, i genitori dovranno avere un’anzianità̀ aziendale di almeno un anno. Ma in questo modo vengono esclusi i giovani, gli atipici e gli stagionali, creando così lavoratori di serie A e di serie B.
In tema di politiche di conciliazione l’Italia come è messa?
Sono stati fatti dei passanti avanti, ma c’è ancora molto da fare. Prima di tutto su aspetti strettamente pratici. Nel nostro paese abbiamo 5 mesi di astensione obbligatoria per le lavoratrici madri – di recente anche ulteriormente reso flessibile e 5 giorni di astensione obbligatoria ai lavoratori padri in seguito si può usufruire del congedo però questo viene retribuito solo del 30%. Dunque viene chiesto da chi ha solitamente lo stipendio più basso, che impatta di meno sul bilancio familiare, ossia alle lavoratrici. Bisogna fare in modo che ci sia maggiore flessibilità in alcuni momenti topici della vita dei lavoratori e delle lavoratrici superare alcune rigidità presenti per evitare che soprattutto le donne devano rinunciare al lavoro e che purtroppo come accade frequentemente le venga imposto dei part-time involontari, che di certo non aiutano la conciliazione. Serve dunque un cambio culturale nel mondo del lavoro e dell’impresa. Molto è stato fatto con la contrattazione del welfare aziendale ma rimane un’opportunità spesso solo per alcune aziende medio grandi.
La mancanza di politiche family friendly e che non aiutano a eliminare le disparità di genere che effetti stanno avendo sulla nostra società?
Che stiamo perdendo professionalità, perché mediamente sono proprio le donne le più qualificate, e quelle che hanno i titoli di studio più spendibili. Accanto alla ormai nota fuga dei cervelli, assistiamo anche alla fuga dei “pancioni”, perché molte giovani donne vanno a lavorare all’estero dove ci sono condizioni più favorevoli, e la maternità e la famiglia non sono viste come un ostacolo.
Al Congresso della famiglia di Verona si è molti discusso anche sul ruolo della donna nel mercato del lavoro. Quali sono le valutazioni in merito?
Le argomentazioni presentate a Verona sono del tutto infondate. L’incremento della natalità non si ottiene facendo rimanere a casa le lavoratrici, ma semmai è vero il contrario. Inoltre un’elevata presenza femminile nel mercato del lavoro crea, a sua volta, nuova occupazione, perché incrementa ad esempio la domanda di servizi.
Secondo lei, i vari interventi messi in campo dal governo potranno avere un effetto positivo sulla natalità e rafforzare le politiche di conciliazione?
Per il momento no. Nella legge di bilancio, ad esempio, è stato tagliato il fondo per il baby-sitting. Inoltre ci viene offerta un’immagine della famiglia del tutto disarticolata dalla realtà odierna. Non si può pensare di incentivare la natalità dando in cambio ettari di terra. Anche Quota 100, che nelle previsioni del governo dovrebbe garantire l’accesso nel mercato del lavoro ai giovani, non è detto che funzioni. Prima di tutto perché non c’è mai il ricambio 1 a 1. Inoltre Quota 100 è tarata per un lavoratore maschio dipendente con una carriera continua. Non bisogna solo valutare quando si va in pensione ma anche con quanto. E le lavoratrici in questo sono penalizzate, perché hanno avuto carriere più brevi e discontinue.
Tommaso Nutarelli
@tomnutarelli