“L’adattamento non è camaleontismo ma indica la capacità di resistere ed assimilare” recita un detto del Mahatma Gandhi. E questa frase può essere d’avvio ad una riflessione sui problemi che sono riesplosi con la tragedia avvenuta sulla Marmolada e che non dovrebbe ridursi ad una disputa fra estremismi ideologici, ma dovrebbe condurci ad esaminare con maggiore attenzione la complessità della situazione.
Le colpe dell’uomo nel dissesto ambientale sono indiscutibili, a partire dagli effetti dei gas serra con la conseguenza del riscaldamento della terra. Ma la commozione per le vittime della Marmolada non può farci dimenticare quello che gli esperti più equilibrati ci suggeriscono da tempo, vale a dire che occorre tener conto anche delle mutazioni naturali che avvengono da secoli e procedono senza soste. Sarebbe più ragionevole allora valutare un percorso dal doppio binario: la transizione energetica vera e propria senza fughe in avanti oggi scriteriate visto il valore politico dell’energia; l’adattamento alla evoluzione climatica ed agli alti fenomeni naturali che implica non la rassegnazione bensì politiche attive per, ad esempio, rimettere in sicurezza i territori.
Ed entrambi i “binari” dovrebbero far parte di una strategia unitaria e con il concorso della scienza, in grado di procedere con il metodo concertativo nel quale non possono non fare parte le forzi sociali per le ricadute economiche ed occupazionali, ma anche per contribuire a realizzare una maggiore consapevolezza civile su questi problemi.
Se invece insistiamo nella pratica da talk show che si fossilizza nella contrapposizione fra tesi inconciliabili fra di loro, rischiamo quello che sta avvenendo: l’immobilismo e di conseguenza l’incertezza sul da farsi che si aggiunge a quella più generale sul piano economico e sociale.
Anche in questo caso del resto servirebbe un approccio europeo, ma da vero …governo politico europeo. Perché lo scioglimento dei ghiacciai come le inondazioni, come la siccità, come le altre catastrofi naturali non sono peculiari di un territorio, ma come tali andrebbero affrontati per quel che ci riguarda con politiche che non possono essere quelle delle…scorciatoie come si è verificato nel caso del diktat sulla fine delle auto a benzina e diesel nel 2035, senza peraltro immaginare una proposta complessiva che sia in grado di evitare danni alla produzione ed al lavoro.
Perché l’approccio deve essere politico? Ma perché nel 2021 l’Unione europea aveva adottato una strategia per l’adattamento ai criteri climatici nella quale la riduzione dei gas serra era una, ma non l’unica, scelta da compiere, proprio perché “arrestare tutte le emissioni di gas ad effetto serra comunque non impedirebbe gli effetti dei cambiamenti climatici che sono già in atto e che proseguiranno per decenni”. Potremmo dire allora che si fa anche su questo versante necessario un colpo di reni politico nella realizzazione di una Europa più unita. Se non altro per due considerazioni: la prima riguarda uno degli aspetti più “opachi” dell’ambientalismo più estremo che riguarda un fattore sul quale non si ragiona abbastanza: la transizione ecologica è comunque un enorme affare in prospettiva sotto tutti i punti di vista sul quale, inutile nasconderlo, hanno messo gli occhi da tempo grandi potentati finanziari in grado anche di manovrare la comunicazione.
In questo senso la finanza che conta si ripeterebbe nel voler soggiogare la politica ai suoi disegni. Ed è la politica che deve invece reagire.
L’altro aspetto che non può sfuggire è quello paradossale di puntare tutto su un aspetto del problema, i gas serra, riducendosi poi a dover fronteggiare i disastri naturali con la logica, perdente, dell’emergenza. Una logica peraltro costosa e che non risparmia vittime e danni economici ingenti.
Ecco perché il cosiddetto adattamento non può essere considerato un atto “remissivo” nei riguardi della violenza della natura, bensì il modo più sensato e concreto per prevenire tutto ciò che si può scongiurare con interventi secondo piani pluriennali e di grande portata. Nel nostro Paese la casistica da affrontare è ben nota: fiumi che esondano finita l’estate, frane che sono frutto anche del cemento e del disboscamento, un sistema idrico che viene definito dai più come un colabrodo, la questione irrisolta in diverse zone dei rifiuti, le ristrutturazioni urbane e potremmo continuare quasi…all’infinito.
Nel 2012 il Ministro dell’ambiente Corrado clini aveva presentato al Cipe linee precise per la messa in sicurezza del territorio e per l’adattamento ai cambiamenti climatici. In esso vi era un ventaglio di interventi precisi da adottare nel tempo. Del resto anche dal movimento sindacale si era levata in passato la richiesta di progetti decennali o pluriennali per gli stessi motivi. Le attenuanti come la recessione del 2008 e tutto ciò che è avvenuto in seguito non possono nascondere però la sordità politica che non ha dato ascolto a queste sollecitazioni se non latro per rimboccarsi le maniche ed agire per prevenire i pericoli più evidenti, cominciare a ridurre le esposizioni ai rischi e, conseguentemente, limitare la portata delle eventuali catastrofi.
Eppure oggi ci sono le condizioni per procedere, utilizzando anche un metodo che potrebbe mettere al riparo le decisioni in materia dalle ricorrenti turbolenze politiche. Ci sono risorse europee a disposizione, ci sono tecnologie avanzate, ci sarebbero opportunità di lavoro da offrire soprattutto ai giovani. E al di sopra di queste riflessioni vi è una esigenza etica da non ignorare che è quella di garantire la vita il più possibile.
L’Italia non può limitarsi a diventare un cantiere, sia pur necessario, per la “rete”. Occorre mettere in campo a fianco di queste opere un sforzo straordinario per recuperare decenni di incuria e di abbandono e restituire sicurezza, ma anche migliore qualità della vita, ai territori. Forse è una occasione irrepetibile ed arriva purtroppo proprio adesso che si profila sul piano economico e sociale un periodo molto difficile.
La cautela delle Banche centrali nel tornare a toccare i tassi di interesse dovrebbe spingere soprattutto i Governi europei e la politica non tanto verso generiche assicurazioni, quanto verso scelte che restituiscano certezze soprattutto all’economia reale. In questo periodo l’euro si sta indebolendo a causa delle tensioni internazionali a favore del dollaro, ma al tempo stesso spinge l’inflazione già elevata e che a sua volta ci sta conducendo verso rive recessive. La Bce non può certo assolvere in un momento internazionale tanto delicato al ruolo di Ministero europeo dell’economia che non è inoltre nei suoi compiti istituzionali. Perché o si individua per tempo una linea comune europea per fronteggiare la possibile stagflazione o possono riemergere i fantasmi di quella dura politica del rigore alla tedesca, la famigerata austerità, che ha aggravato la situazione e pesato non poco sui Paesi con i deficit più elevati.
Insomma ci stiamo avvicinando a frangenti economici e sociali, con incerte ripercussioni politiche, di assoluto rilievo. Inutile domandare: chi ci sta pensando? Basta osservare le manfrine politiche di casa nostra per avere un quadro tutt’altro che roseo della situazione. Eppure al dunque non c’è scelta: bisogna ritrovare la sintonia con una stagione riformatrice vera e profonda nella quale i temi ambientali debbono avere uno spazio importante ma per garantire sicurezza e sviluppo industriale. “Accettarsi ed adeguarsi è l’atteggiamento psicologico più utile ogni volta che qualcosa cambia” sosteneva Umberto Veronesi. Riflessione quanto mai opportuna, aggiungendo inoltre che essere pronti al cambiamento vuol dire affrontare le sfide ed essere all’altezza delle stesse.
Paolo Pirani