Chi ha voluto tener di conto ha calcolato che il presidente della Fed, Jerome Powell, abbia citato 17 volte, nel suo ultimo intervento, l’obiettivo di politica monetaria del 2 per cento di inflazione. Probabilmente, un analogo esercizio sui discorsi di Christine Lagarde darebbe esiti non differenti per la Bce. E così per chi dirige le banche centrali di Inghilterra, Canada e via elencando. Il traguardo del 2 per cento di inflazione è una sorta di mantra universale della politica monetaria, tanto più citato nel momento in cui i prezzi tendono a correre ad un ritmo del 10 per cento e il 2 per cento viene presentato come l’ancora salvifica, a cui aggrapparsi per non precipitare in una deriva senza scampo. Anche se – è la cronaca di questi mesi – raggiungere quel 2 per cento comporta una stretta monetaria che strangola sempre più l’economia, sacrificando sviluppo e posti di lavoro.
Un mantra è un esercizio mentale che serve per concentrarsi su un obiettivo specifico. Ma il dubbio che cominciano ad alimentare alcuni autorevoli economisti è che il mantra sia diventato un totem, a cui ispirarsi sempre e comunque, a prescindere. O, peggio ancora, un feticcio, ovvero un falso idolo, privo di riscontri nella realtà. Fuor di metafora: ci sono solidi motivi economici dietro la bandiera del 2 per cento? In fondo, altri numeri totemici nell’economia di questi anni – come il tetto al deficit del 3 per cento e al debito del 60 per cento, scolpiti nella pietra del trattato di Maastricht – sono sostanzialmente casuali, frutto del calcolo, ad occhio, di un oscuro funzionario del ministero del Tesoro francese dell’epoca, ignaro del valore di tavole di Mosè che quei parametri avrebbero assunto. Quel 3 e quel 60 sono – riconoscono oggi anche ai vertici della Ue – utili strumenti di riferimento e guida delle finanze pubbliche, ma non l’epocale spartiacque fra salvati e dannati. E, allora, quel 2 per cento delle banche centrali?
L’obiettivo del 2 per cento di inflazione, condiviso e difeso con fervore religioso dalle banche centrali di tutto il mondo, fa parte della stessa famiglia dei parametri di Maastricht: è figlio di una trovata da marketing pubblicitario. Nasce, alla fine degli anni ’80, nella testa di Arthur Grimes, allora brillante giovane economista alla banca centrale della Nuova Zelanda. L’inflazione viaggiava, allora, nel paese, al 10 per cento. Perché non fissare un obiettivo di riduzione, intorno a cui strutturare la politica monetaria? Grimes e colleghi avrebbero preferito l’1 per cento, ma per darsi qualche margine di manovra, decisero di proclamare un obiettivo fra 0 e 2 per cento. Faceva anche un buon slogan: “fra zero e due entro il ’92”. Be’, funzionò. Nel senso che, con una politica monetaria restrittiva e una dolorosa recessione, l’obiettivo fu raggiunto nei tempi previsti. L’idea fu copiata in Canada, in Australia, poi negli Stati Uniti e, naturalmente, dalla Bce in Europa. La trovata da marketing era diventata un pilastro della teoria monetaria.
In realtà, l’idea brillante c’era. Ed era la fissazione di un obiettivo preciso della politica monetaria, un pilastro intorno al quale si trincerava la banca centrale. L’inflazione è, anzitutto, un problema di aspettative: le imprese fissano i prezzi e i lavoratori chiedono gli aumenti salariali sulla base, in larga misura, di quello che si attendono sarà l’inflazione. Se la banca centrale dice che l’inflazione sarà il 2 per cento e riesce, manovrando, ad esempio, i tassi di interesse, a centrare l’obiettivo, dimostra che è capace di rispettare i suoi impegni. Diventa credibile e, dunque, quello che afferma riuscirà ad “ancorare le aspettative” (come si dice in gergo monetario). Nell’ipotesi migliore, potrà governare l’inflazione solo con le parole.
A cementare quel 2 per cento ha contribuito la bassa inflazione (grazie alle merci a buon mercato che ci ha offerto la globalizzazione) degli ultimi venti-trent’anni: il 2 per cento è sempre stato a portata di mano. Ma, adesso che l’inflazione è al 10 per cento, la domanda diventa legittima: perché al 2 e non al 3 o anche al 4 per cento? Dal punto di vista dell’efficacia psicologica della strategia della banca centrale non cambia nulla, una volta che il nuovo obiettivo è stato fissato. Ma per l’economia reale ci sarebbero differenze importanti.
La prima è a lungo termine. Si è visto solo poco tempo fa, quando il pericolo era non l’inflazione (cioè il surriscaldamento dell’economia e dei prezzi), ma la deflazione (ovvero il suo progressivo congelamento con il calo progressivo dei prezzi) l’importanza dello stimolo che la banca centrale può fornire abbassando i tassi di interesse. Ma, partendo dal 2 per cento, lo spazio per abbassare i tassi, prima di sbattere contro lo zero, è poco. Draghi e colleghi hanno dovuto inventarsi acrobazie inedite per ovviare al fatto che non potevano abbassare sotto le zero i tassi di interesse (i tassi negativi funzionano per le riserve presso le banche centrali, non per i conti correnti nelle banche normali). Partendo dal 3, o dal 4 per cento i margini di intervento sarebbero stati più efficaci.
L’altra differenza è nell’immediato. Nell’arco dei prossimi mesi, l’inflazione cadrà spontaneamente – dicono tutte le previsioni – al 3 per cento, senza bisogno di strette monetarie e di recessioni dell’economia che l’obiettivo del 2 per cento rende, invece, inevitabili.
Insomma, un traguardo di inflazione più alto consentirebbe una politica monetaria più flessibile e meno punitiva, senza essere per questo meno efficace. Il problema è la psicologia: cambiare in corsa il sacro traguardo del tetto di inflazione mina la credibilità così preziosa della banca centrale? Alla fine, per paradossale che sia, il metro di giudizio della politica monetaria si riduce ad un problema di marketing.
Maurizio Ricci