Tra le novità che ci porterà questa prossima tornata elettorale non ci sarà quella del voto operaio. Come nei decenni passati, i colletti blu voteranno per i partiti della destra, Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia. L’unica sorpresa sarà la distribuzione del loro voto tra questi tre partiti. Non è detto che sarà Matteo Salvini il favorito, anzi: è possibile che gli operai, dopo aver votato tanti anni per Silvio Berlusconi ed essere poi passati alla Lega, compiano adesso un altro passo a destra e diano la loro preferenza a Giorgia Meloni.
Nessuno ha la bacchetta magica o lo specchio della verità per sapere cosa davvero accadrà il 25, ma è difficile immaginare che possa andare diversamente. Eppure, nonostante tutto, si fatica a credere che anche questa volta sarà così, soprattutto perché questo voto è diverso, non sarà un voto di opposizione, ma di governo. Si stanno infatti confrontando diverse opzioni politiche, di fondo, e gli operai, come tutti i cittadini, devono scegliere che tipo di governo vogliono. E sembra strano che ancora una volta decidano di votare la destra.
Che gli operai votino a destra è storia vecchia. Risale ai primi anni novanta, quando Berlusconi scese nell’agone politico, sparigliò gli equilibri dicendo che per l’elezione del sindaco di Roma avrebbe votato per Gianfranco Fini e poi, alle elezioni politiche, sbaragliò la sinistra. Da allora gli operai hanno preso questa strana abitudine, tengono gelosamente in tasca la tessera del sindacato confederale preferito, ma nel segreto dell’urna votano chi gli pare, nel caso i partiti di destra. Una scissione che ha fatto bene al sindacato, perché in qualche modo ha concesso alle tre confederazioni di sciogliere i legami con i partiti cui tradizionalmente erano legati, recuperando una loro forte autonomia che indubbiamente li ha rafforzati.
Certo, che un operaio, che tanto ricco non è, debba scegliere di votare per un partito di destra, retto da un miliardario, può sembrare strano, quasi paradossale, eppure è così. È la stessa storia che si ripeteva in Brasile ogni volta che si votava per il Parlamento: per la sinistra si presentava Ignacio Lula, paladino dei poveri, e questi votavano in massa per il miliardario che di volta in volta si opponeva a Lula. Non perché ritenevano che avrebbe governato meglio di lui, ma perché il miliardario li affascinava, volevano essere come lui, pensavano che votandolo tutti sarebbero diventati più ricchi. Se lui è diventato ricco, pensavano, diventeremo ricchi anche noi. Nulla di più sbagliato, perché nella gran parte dei casi si diventa ricchi a spese degli altri. Ma nessuno lo capiva, tutti chiudevano gli occhi e sognavano.
E così negli anni ci siamo abituati a vedere gli operai che si schieravano a destra. Non tutti, ovviamente. Tanti hanno anche continuato a votare i partiti della sinistra, ma in un numero sempre più esiguo. Una pratica che abbiamo imparato a capire, anche se non a giustificare. Ma la situazione di questa prossima votazione è differente. Perché votare a destra non è più il gesto plateale per dire che la sinistra non ha fatto il suo dovere, non ha rispettato come doveva i diritti dei lavoratori, non è lo sberleffo di chi vota un partito che dovrebbe essere avverso per il gesto del paradosso eclatante. Adesso è diverso, perché questa volta la destra lotta non per crescere ed essere più forte nel contrastare i disegni della sinistra, adesso la destra combatte per governare. Ma allora tutti dovrebbero sforzarsi di capire quale forza politica sia in grado e voglia difendere davvero i diritti della classe operaia, se la destra o la sinistra.
Quando si fanno questi discorsi i lavoratori per lo più affermano che nel loro giudizio negativo pesa il ricordo di cosa ha fatto il centrosinistra negli anni. Perché, argomentano i lavoratori, dovremmo votare il Pd o i suoi alleati se questo partito ha accettato la riforma Fornero, ha varato il Jobs Act, ha cancellato l’articolo 18? Hanno sbagliato, sentenziano, adesso paghino. E non è presentando nelle liste due ex sindacaliste di peso come Susanna Camusso o Annamaria Furlan che la situazione cambia. Insomma, queste sono le colpe che pesano e che indirizzano i voti. E sembrerebbe anche giusto, perché quei provvedimenti hanno pesato realmente sulle spalle dei lavoratori.
Il punto è che nessuno, mentre si fanno questi discorsi, pensa a cosa c’è sull’altro piatto della bilancia. Il Pd, e in genere il centrosinistra, ha voluto quei provvedimenti che non sono piaciuti alla classe operaia, va bene; ma la destra cosa ha fatto e cosa promette di fare? A questo nessuno pensa. Non si pensa a cosa ha fatto la Lega quando è andata al governo con i Cinque stelle nell’ultima legislatura, agli interventi di Matteo Salvini quando era ministro dell’Interno. E prima ancora, negli anni, cosa ha fatto la destra quando con Berlusconi è stata per tanti anni al governo. Questa è storia, e dovrebbe avere un suo peso, ma nessuno sembra pensarci. Lo stesso vale per le promesse di cosa si farà una volta arrivati al governo. Quota 41 per le pensioni, promessa da Salvini, potrà anche piacere, ma è un dato di fatto che non ci sono le risorse per attuare questo progetto, sul quale guarda caso mai la Meloni si è pronunciata. E la flat tax, tanto cara alla Lega, cosa è se non un favore al lavoro autonomo, ovviamente contro il lavoro dipendente, quello degli operai? A tutto questo nessuno ci pensa, ci si concentra sulla perdita dell’articolo 18 e si perdono di vista i tagli continui che la destra al governo ha sempre fatto ai diritti dei lavoratori, ai servizi sociali, al tenore di vita della gente più povera. Tagli fatti per sostenere le riforme fiscali che sono andate sistematicamente a favore di chi è già ricco, non certo di chi vuole o spera diventarlo. A tutto ciò nessuno pensa. Peccato.
Massimo Mascini