Non li ho visti arrivare. No, non è un maldestro rilancio del più famoso slogan di Elly Schlein. Io non li ho proprio visti arrivare. Quello che state leggendo è, infatti, un genuino mea culpa professionale. I giornalisti, ogni tanto, toppano e, quando toppano, forse è il caso che lo dicano, anche se la professione ha già abbastanza guai.
Io, dunque, ho scritto, nel settembre 2022, a ridosso delle elezioni politiche, un articolo in cui invitavo i lettori del Diario del lavoro a mantenere la calma: conquistando la maggioranza in Parlamento, Meloni e soci non avevano nè incendiato il Reichstag, nè marciato su Roma. La destra aveva già governato in Italia in qualcuna delle tante incarnazioni della Dc e, poi, con Berlusconi. Meloni, Lollobrigida e Salvini erano più ruspanti, sfrontati e audaci, rispetto ad Andreotti e al Cavaliere, ma non esibivano suggestioni rivoluzionarie. Conservatori sì, reazionari no, giudicavo. In termini di progresso sociale e civile, sarebbero rimasti fermi, ma non andati indietro.
Cosa intendevo? Per la politica economica, scommettevo sulle mance alle corporazioni, il braccino corto sulle emergenze sociali, le strizzatine d’occhio agli evasori. Sul piano civile, mi aspettavo che la legge sul fine vita sarebbe rimasta nel limbo, che i figli di coppie omosessuali avrebbero avuto problemi, che il diritto all’aborto sarebbe rimasto, ma il percorso per le donne che vogliono abortire sarebbe stato ancor più irto di ostacoli, che Salvini avrebbe riaperto la caccia al migrante, che la Rai sarebbe stata terra di conquista.
Sotto questo profilo, non mi sorprendono i deliri sovranistici contro l’inesistente carne sintetica o l’abitudine presa dalla polizia di calare i manganelli ogni volta che si vedono tre studenti insieme. Ma pensavo ad un mutamento di clima politico e sociale, più psicologico che reale. Non mi aspettavo un ribaltone operativo delle istituzioni democratiche, da far invidia ai piani di Licio Gelli e della P2.
Premierato, separazione delle carriere, autonomia (finanziaria) delle Regioni. Ognuna di queste riforme è una bomba sotto l’assetto istituzionale uscito dalla Resistenza, ma tutte insieme sono più di uno stravolgimento della democrazia come la conosciamo: sono una reinterpretazione che segna l’inizio di un nuovo regime (la r è minuscola, mi raccomando, adesso non esageriamo). Un Parlamento, dove i componenti della maggioranza sono stati scelti uno per uno da un leader inamovibile. Una magistratura sotto tutela e sotto scacco, pronta per essere chiamata ad intervenire dove vuole il governo. Un paese diviso in due, dove chi ha avuto (le Regioni ricche) ha avuto e poche storie, ovvero pochi margini per redistribuire. Insieme fanno i connotati di uno Stato autoritario, dove il bilanciamento dei poteri è stato svuotato. Per realizzarlo, ora manca solo un plebiscito.
Potevo veder arrivare un’ora così buia (la tentazione di ripescare concetti e citazioni di un secolo fa, a quanto pare, è irresistibile e anche questo è un segnale)? I lineamenti di una democrazia autoritaria del XXI secolo non sono stati inventati a Colle Oppio o a Pontida. Bastava studiare l’Ungheria di Orbàn, la Polonia di Kaszcinsky, con un occhio anche alla Turchia di Erdogan. Gli esempi di una democrazia con politica, giustizia e informazione addomesticate sono lì: attuali, viventi e pulsanti. Una minaccia reale e incombente, del tutto leggibile.
Tanto più che ho commesso un altro errore, che moltiplica il precedente. Mi aspettavo che lo scivolamento a destra dell’Italia fosse un’eccezione e che, di conseguenza, l’esperienza Meloni, nel cuore dell’Europa occidentale ne risultasse comunque contenuta e isolata. Mi ingannavo. La destra europea che aveva come nume tutelare Angela Merkel non c’è più e ne possiamo solo contemplare le rovine. Uno dopo l’altro, i partiti della destra moderata (verrebbe da dire, costituzionale) rinunciano ai principi e aprono le porte alla destra radicale, anche quando l’odore di populismo razzista e fascista è inequivocabile. Lo abbiamo visto nell’Olanda di Wilders, ora nella disponibilità dei popolari tedeschi a governare con i neonazisti dell’Afd (per ora solo a livello locale, poi vedremo) e nella frattura del movimento gollista sui rapporti con Le Pen. Archiviato l’arco costituzionale italiano, si frantuma anche il muro della democrazia postbellica.
Davvero, adesso non c’è più spazio per gli equivoci e le scelte sono semplici: o di qui o di là. E qui ed ora, non domani. Ecco perché resta un altro errore e, almeno questo, non voglio farlo, anche se comincia ad andare di moda. E’ il caso di un autorevole economista, Olivier Blanchard, e di un importante commentatore, Janan Ganesh. Blanchard dice che ha fatto bene Macron a sfidare Marine Le Pen con le elezioni. O Le Pen perde, ed esce di scena o vince, governa e, dopo due anni di disastri, viene cacciata alle prossime presidenziali che, altrimenti, avrebbe vinto. Ganesh, sul Financial Times arriva a conclusioni analoghe: l’unico modo di vaccinarsi contro il populismo, sostiene, è lasciarlo rovinarsi con le sue mani, governando.
E’ un drammatico eccesso di condiscendenza e spocchia intellettuale. Non è vero che i populisti si sparino inevitabilmente sui piedi. Batterli, in Polonia, è stato duro e difficile. E lo sappiamo anche in Italia, dove la Meloni ha un governo solido e sconfiggerlo (al referendum o alle prossime politiche) sarà una impresa, di cui, per ora, non si vedono i requisiti. Ma, insieme, l’atteggiamento di Blanchard e Ganesh è anche l’avvisaglia di una tragica resa all’ascesa dei populisti. Attenzione, non è nuova. Facta, Giolitti, Benedetto Croce e buona parte della borghesia italiana dell’epoca – ci hanno spiegato gli storici – pensavano tutti che il fascismo fosse un fenomeno passeggero. Il paragone può apparire scomodo e inappropriato. Ma non lo è l’insegnamento che se ne trae: l’illusione di mettere le braghe alla storia è traditrice.
Maurizio Ricci