Dopo la scoperta, nei giorni scorsi, di un cluster di Coronavirus da variante inglese al 1° piano dell’ospedale policlinico San Martino di Genova, sono stati riscontrati analoghi casi in altre strutture sanitarie che vengono fatti risalire al rifiuto di vaccinarsi da parte di alcuni operatori (medici e infermieri), i quali, poi risultati positivi avrebbero esteso il contagio ai colleghi di lavoro. Il ripetersi di tali eventi ha indotto i responsabili politici delle regioni interessate a varare un decreto che renda obbligatoria la vaccinazione nelle situazioni – come quelle sanitarie e sociali – dove il personale viene a contatto con persone esposte e fragili. Va da sé che, ogniqualvolta si affronta questo tema – volenti o nolenti – diventa inevitabile porsi il quesito di quali effetti potrebbe determinare sul rapporto di lavoro il persistere nel rifiuto: dalla sospensione fino alla risoluzione per giustificato motivo. Ovviamente a Genova e altrove il nesso di causalità va accertato. Anche perché sarebbe singolare che tra colleghi non si usino le misure di protezione lavorando insieme in strutture esposte al rischio.
Tuttavia, pur nell’incertezza di un quadro legislativo e giurisprudenziale, chi scrive è convinto che a regolare la materia siano sufficienti le disposizioni già in vigore, nel senso che l’obbligo di vaccinazione (e non solo nelle strutture sanitarie e sociali) è parte integrante degli obblighi che, in un normale rapporto di lavoro, gravano sul datore e sui dipendenti. Le Aziende ospedaliere, come tutti i datori di lavoro, devono adempiere a quanto stabilito dall’articolo 2087 del codice civile che recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità̀ del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità̀ fisica e la personalità̀ morale dei prestatori di lavoro’”. Si tratta di una “norma di chiusura” della tutela antinfortunistica, in quanto all’imprenditore, per essere affrancato da responsabilità penale e civile, non basta limitarsi a rispettare le leggi vigenti in tema di sicurezza del lavoro. L’orizzonte dell’articolo citato è quello della particolarità, dell’esperienza e della tecnica e delle indicazioni che ne derivano anche nel silenzio della legge.
Tipico è il caso dell’esposizione all’amianto, la cui estrazione e lavorazione è stata proibita solo nel 1997, ma gli imprenditori che ne avevano fatto uso nei loro processi produttivi anche molto tempo prima (perché così era previsto nei contratti di appalto) sono stati condannati, in sede penale e civile, per i decessi da mesotelioma. In questa norma sta la chiave del problema da quando la legge ha ricondotto la contrazione del virus sul posto di lavoro o in itinere alla fattispecie dell’infortunio (con la specificazione: da covid-19), non solo per il personale – come quello sanitario – che lavora a contatto con il virus, ma per chiunque possa dimostrare l’eziologia del contagio. La causa violenta a base dell’infortunio (da covid-19) avrebbe potuto mettere le aziende in una condizione di responsabilità oggettiva, se non si fosse chiarito, in un provvedimento successivo, che: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da covid-19, i datori di lavoro pubblici (quindi anche un’azienda ospedaliera, ndr) e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
In sostanza il legislatore ha ritenuto necessario fornire una sorta di interpretazione autentica dell’applicazione dell’articolo 2087, proprio per le preoccupazioni espresse dal mondo dell’impresa e condivise, a suo tempo, anche dal Piano Colao: “Il possibile riconoscimento quale infortunio sul lavoro del contagio da covid-19, anche nei settori non sanitari, pone – era scritto – un problema di eventuale responsabilità penale del datore di lavoro che, in molti casi, si può trasformare in un freno per la ripresa delle attività. D’altro canto, per il lavoratore che è esposto al rischio di contagio per il tragitto che deve fare per andare al lavoro e per il permanere a lungo nel luogo di lavoro, magari a contatto con il pubblico, il trattamento del contagio quale infortunio garantisce un livello di tutela, per sè e i propri famigliari, ben maggiore del trattamento di semplice malattia. Si tratta quindi di individuare – come poi è avvenuto, ndr – una soluzione di compromesso che salvaguardi le due esigenze”.
A questo punto, si può ricapitolare: il datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 citato, è tenuto ad adottare tutte le misure che, a prescindere da quanto è recepito e indicato dalla legge, possono tutelare la sicurezza del lavoratore; il contagio da Covid-19, se contratto in occasione di lavoro, è considerato infortunio, dalla cui responsabilità il datore si sottrae se gli è riconosciuto di avere applicato correttamente quanto disposto nei Protocolli. Nell’ambito delle misure di tutela è subentrata la disponibilità di vaccini, regolarmente testati dalle autorità competenti: una misura frutto della “esperienza e della “tecnica”. Sorge allora un obbligo in capo al datore (pubblico o privato) per mettere in sicurezza i propri dipendenti. Quando nell’ambito del rapporto di lavoro una delle parti – nel nostro caso il prestatore – si sottrae ad un obbligo contrattuale mettendo a rischio la sua salute e quella dei suoi colleghi, al datore di lavoro – che è comunque responsabile della sicurezza della comunità aziendale – non è consentito di cavarsela dicendo: “Io la vaccinazione gliela voleva fare, ma lui si è rifiutato”.
L’azione del dipendente non esonera il datore nel caso che dal contagio/infortunio derivi un danno grave o il decesso del dipendente stesso e di altri colleghi contagiati; ma il rifiuto gli impedisce di adempiere ad un obbligo corredato di sanzioni penali. Poi c’è il problema nei confronti di altri soggetti – i pazienti, ad esempio, o i loro parenti, i quali si sono affrettati nei casi citati ad inviare esposti alle procure, le quali a loro volta non chiedono di meglio che impiccarsi – che, se contagiati, possono accusare l’amministrazione di non aver provveduto a rimuovere una fonte di rischio di cui era consapevole (nei casi in esame quel personale si era sottratto notoriamente alla somministrazione del virus). In tali casi, le amministrazioni degli ospedali avrebbero dovuto quanto meno sospendere – in uno di questi si è correttamente provveduto – i dipendenti renitenti alla vaccinazione.
È opportuno quindi che le parti sociali si attivino ad aggiornare i loro benemeriti protocolli (che vengono recepiti dal governo) alla nuova disponibilità delle vaccinazioni, anche perché le aziende si accingono a diventare presidi per le somministrazioni. In caso di rifiuto conclamato di sottoporsi alla vaccinazione, non pare esservi una soluzione diversa dalla risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo soggettivo (e quindi non in regime di blocco) da parte del datore. Perché, a pensarci bene, non sembra possibile neppure il trasferimento ad altra mansione (in totale isolamento?) proprio per la natura stessa del contagio. Magari, alcuni casi di esonero per validi motivi, riconosciuti come tali, possono essere previsti nei Protocolli, indicando anche come provvedere di conseguenza, visto che il problema non si pone solo negli ospedali, ma in tutte le comunità di persone. Ma nessuno può pretendere che in una officina si costruisca un “reparto confino” dove collocare i dipendenti No Vax, perché il datore è responsabile anche della loro salute e sicurezza. Siamo in presenza di un caso in cui i diritti di una persona terminano quando violano i diritti (e la salute) di un’altra.
Giuliano Cazzola