Le islandesi, in quella che viene chiamata l’isola delle donne, perché da sempre è all΄avanguardia nel riconoscimento di una effettiva uguaglianza fra uomini e donne, hanno combattuto e hanno vinto la loro battaglia. Lo scorso 24 ottobre le lavoratrici dell’intero Paese si sono fermate e sono scese in piazza per denunciare le differenze salariali con gli uomini. Lo hanno fatto alle 14 e 38, orario in cui la loro giornata lavorativa dovrebbe interrompersi se commisurata allo stipendio percepito da un collega uomo. Seguite subito dopo dalle francesi, che il 7 novembre hanno scioperato per protestare contro il gender pay gap. Negli Stati Uniti il tam tam dell’equal pay, lanciato lo scorso anno da Barak Obama, continua a mobilitare attori, politici, gente comune.
Negli ultimi anni, anche Francia, Belgio, Austria e Portogallo si stanno muovendo verso la parità retributiva, con l’approvazione di apposite leggi, che spaziano dal rafforzamento dei controlli all’obbligo periodico di presentazione di analisi comparative tali da monitorare quella che in azienda è la struttura salariale.
Le donne “sono il cuore dell’economia” è scritto nel manifesto 8 Marzo della Ces-Etuc, la Confederazione Europea dei Sindacati, condiviso con Cgil, Cisl, Uil: ma troppo spesso il loro lavoro è invisibile, quando non riconosciuto, retribuito meno di quello di un uomo.
Insomma è partita una vera e propria offensiva mondiale perché la partecipazione paritaria delle donne al mercato del lavoro, oltre che una battaglia di equità e democrazia, diventi prioritaria per la crescita.
Proprio in occasione dell’8 marzo la Cgil ha dato seguito al suo impegno contro le discriminazioni tra uomini e donne, mettendo al centro le disuguaglianze, determinate in maniera significativa dalle disparità salariali. Lo ha fatto con centinaia di assemblee nei luoghi di lavoro e nelle piazze, dove si sono confrontati lavoratori e lavoratrici, perchè sono temi che riguardano l’economia dell’intero Paese, non soltanto le donne. Ma bisogna vincere forti resistenze culturali e molti pregiudizi per scalare la classifica stilata dal World economic forum, che ci vede al 69esimo posto nel mondo per disuguaglianza di genere, in termini di reddito e di occupazione, di mancata parità effettiva insomma, a partire dal lavoro.
Non è solo una questione di leggi: la legge italiana lo prevede, la Costituzione anche (art.37), i Contratti nazionali di lavoro idem. Eppure, a 57 anni dallo storico accordo interconfederale, per il settore industriale, intitolato “PARITA’ SALARIALE UOMO-DONNA”, che prevedeva un inquadramento professionale non più riferito al sesso, l’Italia è tra i Paesi europei con la maggior differenza salariale tra uomini e donne.
Manca la volontà politica, necessaria per mettere in campo azioni che contrastino le discriminazioni e le disuguaglianze crescenti, mancano all’appello gli investimenti per aumentare i posti di lavoro delle donne. Quello che serve è un piano straordinario per l’occupazione femminile, con misure come quelle contenute nel Piano del Lavoro della Cgil.
Il sindacato da parte sua può fare molto attraverso la contrattazione di secondo livello, se declinata in una prospettiva di genere, contribuendo al processo di crescita e di sviluppo di una società più equa, ma anche fattivamente alla parità di genere. Senza “forzature” di questo tipo, il gender gap richiederà almeno 70 anni per essere colmato. Ci piacerebbe anticipare i tempi: è responsabilità del Governo adottare ogni misura per raggiungere questo obiettivo.