L’Italia è il Paese più vecchio d’Europa, in cui si vive più a lungo e si fanno meno figli. Una combinazione esplosiva che impone ai legislatori l’urgenza di ripensare strutturalmente il modo di intendere il welfare. Secondo il quadro demografico tratteggiato dall’Istat nel Rapporto Annuale, al 31 dicembre 2022 i residenti in Italia sono 58 milioni e 851 mila, con un calo di 179 mila unità rispetto al 2021. Il 2022, poi, si è contraddistinto per un nuovo record del minimo di nascite – 393 mila nuovi nati, quindi per la prima volta sotto la soglia del 400 mila – e un elevato numero di decessi (713 mila). Rimane alta la longevità e un conseguente aumento del numero di anziani nonostante i livelli di sopravvivenza restino ancora inferiori a quelli del periodo pre-pandemico, con una perdita di oltre 7 mesi in termini di anni mediamente vissuti rispetto al 2019, per entrambi i sessi: alla nascita, la stima della speranza di vita è di 80,5 anni per gli uomini e di 84,8 anni per le donne. L’età media della popolazione è salita, all’inizio del 2023, a 46,5 anni. Al 1° gennaio 2023, le persone con più di 65 anni sono 14 milioni 177 mila, il 24,1% (quasi un quarto) della popolazione totale. Cresce anche il numero di persone ultraottantenni, che arrivano a 4 milioni 529 mila e rappresentano il 7,7 per cento dei residenti. Secondo le proiezione al 2050, il numero è destinato quasi a raddoppiare a 7,9 milioni. Al contrario, diminuiscono gli individui in età attiva, tra i 15 e i 64 anni, che scendono a 37 milioni 339 mila (il 63, 4%) e si riduce anche il numero dei più giovani: i ragazzi fino a 14 anni sono 7 milioni 334 mila (12,5% del totale della popolazione) residente. Senza contare tutti coloro i quali, in età attiva, emigrano altrove. E laddove la partecipazione dei giovani alla vita economica e sociale del Paese è cruciale per garantire un modello di sviluppo inclusivo e sostenibile e un corretto equilibrio del sistema del welfare, è finito il tempo degli slogan per accaparrare consensi.
Non si tratta, quindi, solo di disaffezione nei confronti della rappresentanza politica o di disillusione per promesse puntualmente disattese. In gioco c’è la tenuta di un già fragile sistema composto da fragili cittadini. Si parla degli anziani, ma anche dei loro congiunti, perché il modello di famiglia in cui i giovani si prendono cura dei vecchi si è evidentemente esaurito. In questo senso lo smantellamento del sistema sanitario e il piano di autonomia differenziata aggrava la sopravvivenza dei non autosufficienti – che sono 3,9 milioni di individui, di cui 2,9 milioni non ricevono alcun sostegno pubblico – e delle loro famiglie, strette nella morsa di tariffe stellari, inique o discontinue delle case di riposo – favorite dalla lenta dismissione della gestione statale nell’assistenza agli anziani. Durante la pandemia, poi, le Rsa hanno dimostrato tutta la loro inefficienza trasformandosi in vere e proprie trappole mortali.
Le buone intenzioni dei governi – passati e in carica – ci sono, ma lo stato dell’arte dimostra che purtroppo restano tali. Lo scorso 23 marzo 2023 è stata approvata la Legge Delega 33 sulla non autosufficienza, una misura di civiltà per la quale anche i sindacati dei pensionati si sono battuti a lungo. L’obiettivo è quelli di definire la persona anziana e promuoverne la dignità e l’autonomia, l’inclusione sociale, l’invecchiamento attivo, la prevenzione della fragilità, l’assistenza e la cura delle persone anziane anche non autosufficienti. Ma, come spiegano Celestina Valeria De Tommaso e Franca Maino di Secondo Welfare, Laboratorio di ricerca e informazione che dal 2011 amplia e diffonde il dibattito sui cambiamenti in atto nel welfare italiani, tradimenti, rinvii e retromarce hanno caratterizzato le scelte del governo a seguito dell’emanazione, lo scorso 25 gennaio 2024, dei decreti attuativi.
Non solo. Secondo i dati Istat, dal 2023 i costi per l’assunzione di un assistente familiare sono cresciuti in media del 9,2%. Per far fronte all’ennesimo rincaro, il governo anti-bonus ne ha istituito uno ad hoc: il bonus badante, con l’obiettivo di “promuovere il miglioramento del livello qualitativo e quantitativo” della vita delle persone non autosufficienti e “favorire la regolarizzazione del lavoro di cura prestato al domicilio”. Si tratta di un incentivo finanziato con fondi del Pnrr che permette di accedere a una decontribuzione fino a 3.000 euro per 2 anni, uno sconto sui contributi Inps e Inail, per l’assunzione a tempo indeterminato o la trasformazione del rapporto da tempo determinato in indeterminato dell’assistente familiare. I requisiti, però, sono stringenti ed escludenti: un’età anagrafica di almeno 80 anni, non autosufficienza del beneficiario, il percepimento dell’indennità di accompagnamento, un Isee non superiore a 6.000 euro. A questo si accompagna, a compendio, la rilevazione Inps sui lavoratori domestici. Nell’anno 2023, si legge nel rapporto, i lavoratori domestici contribuenti all’Inps sono stati 833.874, con un decremento rispetto al 2022 pari a -7,6% (-68.327 lavoratori), analogo a quello registrato nel 2022 rispetto ai dati 2021 (-7,3%), dopo gli incrementi registrati nel biennio 2020-2021 dovuti a una spontanea regolarizzazione di rapporti di lavoro per consentire ai lavoratori domestici di recarsi al lavoro durante il periodo di lockdown e all’entrata in vigore della norma che ha regolamentato l’emersione di rapporti di lavoro irregolari (decreto “Rilancio”).
Ma poi c’è anche il bonus anziani da 850 euro per gli anziani fragilissimi, con il decreto anziani Decreto Anziani del 15 marzo scorso e in vigore a partire dal 1 gennaio 2025 e fino a dicembre 2026. Ma anche in questo caso i requisiti sono piuttosto escludenti (e similissimi a quello del bonus badanti) e per questo oggetto di critiche da parte delle opposizioni: almeno 80 anni di età, un Isee inferiore a 6.000 euro, un livello di bisogno assistenziale gravissimo, valutato dall’Inps tramite una commissione specifica, essere già titolari dell’indennità di accompagnamento. Con l’assegno sarà possibile “remunerare il costo del lavoro di cura e assistenza, svolto da lavoratori domestici con mansioni di assistenza alla persona titolari di rapporto di lavoro conforme ai contratti collettivi nazionali di settore”.
Dicevamo che le buone intenzioni ci sono, ma purtroppo restano tali: sì, perché queste misure appaiono piuttosto toppe a una falla gigantesca e tutte in ottica di brevissimo termine. Se (Dio voglia) continuiamo a invecchiare e se (Dio ci aiuti) non facciamo più figli, appiccicare qua e là contributi una tantum e bonus da mille lire non è risolutivo. Il problema è di ampissimo spettro, strutturale, e riguarda gli anziani fino a un certo punto: la mancanza di fondi alle residenze di long term care; scarsi livelli occupazionali, formativi e retributivi tra gli operatori che portano a una fuga di professionisti dal settore: decentramento delle competenze tra le regioni – sempre più divise e alcune delle quali sempre più impoverite -; una medicina territoriale pressoché assente, ospedali impoveriti di personale e risorse; un sistema previdenziale ridotto al lumicino e a cui l’elemosina di 3 euro di maggiorazione sulle pensioni minime, va da sé, che non serve nemmeno a comprare un graspo d’uva. Inoltre, – vediamo fino a quanto toccherà ripeterlo prima che venga compreso – l’importanza della componente straniera per l’assistenza ai nostri anziani: nel 2023 l’Europa dell’Est continua ad essere la zona geografica da cui proviene la maggior parte dei lavoratori domestici con 297.373 lavoratori, pari al 35,7% del totale dei lavoratori domestici, seguiti dai 259.689 lavoratori di cittadinanza italiana (31,1%), dai lavoratori del Sud America (8,1%) e dell’Asia Orientale (5,8%). Dieci anni fa la quota di lavoratori dell’Est europeo era pari a 45,4% contro il 23,4% dei lavoratori italiani.
Elettra Raffaela Melucci