Il sindacato è stato un agente che ha promosso i diritti di cittadinanza sociale? La risposta non può che essere affermativa, se guardiamo alla sua storia e, in generale, a quella dell’azione collettiva. Lo è ancora oggi, quando firma un accordo come quello dei metalmeccanici, che non sembra avere più il grande respiro collettivo di un tempo? Qui la risposta non può che essere più sfumata e articolata, ma non perché sul sindacato pesino limiti che non lo rendono più il collettore di vaste istanze sociali. Piuttosto perché appare molto difficile definire che cos’è la cittadinanza sociale ai nostri giorni.
Quest’ultima, infatti, non può essere identificata semplicemente come la cittadinanza giuridica (il primo dei tre stadi della cittadinanza secondo il percorso tracciato dal sociologo inglese Th. Marshall alla fine degli anni Quaranta), che consiste nell’uguaglianza di fronte alla legge. Quanto alla cittadinanza politica abbiamo creduto che fosse anch’essa semplice da ravvisare nel suffragio universale, prima che i discorsi sulla “postdemocrazia” complicassero le cose. Invece, se parliamo delle garanzie della cittadinanza sociale, ci accorgiamo subito di star entrando in un campo minato.
In Italia, una nazione arrivata tardi alla cittadinanza sociale, pensiamo di sapere con esattezza quali ne siano stati i suoi contenuti. Essi sono costituiti dall’accesso all’istruzione (garantito con l’introduzione della scuola media unica nel 1963), il diritto alla pensione (nei termini della generosa normativa assicurata dalla riforma del 1968), l’assistenza sanitaria erogata dal servizio nazionale (anche questa una riforma che si situa nell’onda lunga del decennio Settanta).
Come stiamo oggi su questi diversi versanti? Cominciamo col dire che nessuno può stabilire con certezza quale sia la soglia precisa della cittadinanza sociale in campi complessi come quelli che ho citato. Prendiamo l’istruzione: che cosa deve garantire lo stato? Un’istruzione di base per tutti, certo. Ma è evidente che per i nostri tempi non basta la scuola media di una volta. E allora? Qual è lo standard? La sicurezza, come si sarebbe detto un tempo, per i giovani meritevoli, di poter progredire negli studi fino alla laurea? E oltre ancora, fino al dottorato di ricerca? Ahimè, qui la faccenda diventa ardua da dipanare perché si intreccia ai problemi della mobilità sociale, che si è bloccata.
A parlare di pensioni, ci si spaventa subito. Le pensioni ci sono, ma sono considerate insufficienti. Insufficienti rispetto a che cosa? Al tenore di vita che gli italiani credevano di aver conquistato, al numero di anni che ci vogliono per andare in quiescenza? Il paragone con gli anni Sessanta è impossibile, da questo punto di vista. Basta leggere le serie storiche dell’Istat, che sta celebrando i suoi novant’anni mettendo in circolo una mole interessantissima di dati, per accorgersene: mettiamo a paragone l’attesa di vita degli italiani del 1970 con quella odierna per rendercene conto. Dunque, restaurare gli schemi pensionistici di allora sarebbe in totale dissonanza con la società attuale.
E la sanità? Intanto, cominciamo col dire che è sufficiente andare in un pronto soccorso di una grande città per rendersi conto che certi servizi sono diventati più inclusivi di un tempo. Per carità, ci sono tutti i problemi che vengono quotidianamente denunciati: ma chi avrebbe immaginato di far fronte alle urgenze degli immigranti, come sta avvenendo adesso? La sanità pubblica, poi, certe cose non le ha mai garantite: le cure dentistiche, per esempio, che com’è noto sono a carico di individui e famiglie. Davvero crediamo che se per i metalmeccanici si apre la possibilità di andare più facilmente dal dentista si lede un principio di eguaglianza sociale?
Insomma, a guardar bene dentro quel decennio lungo compreso fra il 1968 e il 1980, si può scorgere come la tardiva cittadinanza sociale, conquistata e cresciuta sull’onda di un movimento collettivo, in ogni caso non si sarebbe potuta mantenere senza continue revisioni e senza adattamenti. Quelli cui avrebbero dovuto provvedere le forze politiche che si identificano con la sua causa, le quali tuttavia hanno impietosamente mostrato le loro insufficienze (in Italia come nel resto d’Europa).
La cittadinanza sociale ha infatti bisogno di essere rideclinata ogni giorno, perché non è fissa come gli altri tipi di cittadinanza. Essendo alla soglia dell’età anziana, anch’io vengo spesso preso da impulsi di nostalgia. Poiché insegno storia, sono obbligato comunque a mettere a paragone le mie suggestioni emotive con alcuni dati di realtà. Così, mi domando se dobbiamo davvero rimpiangere la “gabbia d’acciaio” dell’epoca dell’industrialismo di massa. Quello era il retroterra culturale della cittadinanza sociale che abbiamo conosciuto: un mondo del lavoro che aveva la sua epitome nella città-fabbrica di Mirafiori, in cui nessuno oggi vorrebbe più lavorare.
E poi, non dimentichiamo che, prima che in Italia, la ridefinizione della cittadinanza sociale è partita dai paesi che più l’avevano sviluppata, Svezia e Regno Unito in testa. Dopo la metà degli anni Settata, i socialdemocratici svedesi persero la maggioranza assoluta e, nel maggio 1979, gli elettori inglesi scelsero Margaret Thatcher che aveva nel mirino del suo programma politico proprio il Welfare State. Perché avvenne? Perché per molti l’elevata compressione fiscale non era compensata dai benefici erogati dallo stato. E molti trovavano ingiusto che chi se lo poteva permettere non provvedesse da se stesso a pagarsi la sanità: non sembrava la lesione di un diritto universale, ma un’opportuna opera di riassetto del sistema assistenziale.
Anche in Italia si percepirono questi umori. Non a caso, si accelerò il cammino verso l’integrazione monetaria europea e Nino Andreatta volle il divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro. Perché (fin qui non lo si è detto, ma si rimedia subito) quel modello italiano di cittadinanza sociale, con quel Welfare universalitico, aveva dietro di sé il presupposto della sovranità monetaria. In altre parole, il suo fondamento era la possibilità di continuare a stampare moneta: era la lira, oggi tanto rimpianta.
Per salvare almeno in parte quell’impianto della cittadinanza sociale, ci sarebbe voluta un’altra politica economica, con l’autonomia monetaria, il controllo della circolazione dei capitali, ecc. Chi ci governava scelse un’altra strada, quella che a tanti adesso pare sbagliata. Si sarebbe potuto fare diversamente? Certo, anche se non mi sento di scommettere che oggi la società italiana starebbe molto meglio. I suoi problemi fondamentali sarebbero rimasti assai probabilmente irrisolti, così come, del resto, non li ha risolti l’introduzione di quello che Guido Carli chiamava il “vincolo esterno”.
La vicenda dell’azione sindacale si è mossa all’interno di questo scenario, reagendo come ha potuto e con le risorse che le organizzazioni dei lavoratori posseggono. C’è chi ha cercato di indirizzarsi prima nella direzione del mutamento in atto e chi ha tentato, a mio avviso senza molto successo, di contrastarlo, per poi accedere a una posizione di realismo che si intravede in quest’ultimo accordo dei metalmeccanici. Quello del sindacato è un mestiere molto difficile e non sarò certo io a voler dare la croce addosso a chi lo pratica. A me sembra che i metalmeccanici abbiano raggiunto un’intesa soddisfacente in queste condizioni e, anzi, arrivo a credere che anche da queste esperienze di contrattazione affiorino segnali utili per definire, in una chiave contemporanea, nuovi diritti di cittadinanza sociale, domani estensibili.
Giuseppe Berta