Si stanno ancora accertando le cause della tragedia sul lavoro che ha fatto 5 vittime a Brandizzo e già due altri incidenti mortali a Viterbo ed Ancona legittimano un triste interrogativo: a cosa è servito Brandizzo? O meglio: a cosa servono le condoglianze della classe dirigente se la morte rivendica subito dopo la sua superiorità atroce con altre vittime evidenziando la incapacità di un sistema culturale e politico a reagire sul serio e con convinzione?
I cinque operai morti avrebbero meritato un giorno di lutto nazionale, se non altro per richiamare tutti a valutare responsabilità e a riflettere non solo sui pericoli immediati ma anche su quelle cause remote, ma non meno insidiose, che creano le condizioni per allungare questa lunga scia di morti e feriti sul lavoro. L’impressione è che anche Brandizzo sia indirizzato invece sulla strada che lo considera un tremendo fatto di cronaca destinato a sbiadire rapidamente soprattutto se non si correggono sia una indifferenza di fondo sia una superficialità nell’affrontare il problema della sicurezza presenti nella nostra società…
Ed allora come meravigliarsi se dopo Brandizzo arriva la notizia di altre due vittime sul lavoro come se non si fosse allungata altro che una tragica fatalità? Ci sarà la solita caccia alle colpe che comunque non riusciranno ad inserire il nodo sicurezza come una priorità dell’agenda politica e come un richiamo alle responsabilità istituzionali non eludibile, visto che sul piano sociale denunce, proposte e mobilitazioni ci sono pur state. Del resto, lo stesso Presidente Mattarella ha spostato con parole chiare il riferimento alla tragedia di Brandizzo da tema del lavoro a grave problema della convivenza civile.
Troppe situazioni non tornano. In primo luogo, la frantumazione della catena degli appalti è già di per se stessa una zona ad alto pericolo. E la giustificazione che è necessario avviare le opere non regge: la legalità non è sinonimo di lentezza, semmai lo è una burocrazia ed una complessità legislativa che lascia varchi ad omissioni e furbizie che possono rivelarsi nel tempo letali per i lavoratori. Il rimpallo di affermazioni sulla opportunità o meno dell’inizio dei lavori sui binari risente anche di una mentalità che dovrebbe essere bandita.
I ritardi nella gestione delle innovazioni tecnologiche aggiungono un tasso di insicurezza che ha avuto probabilmente anche un peso nella vicenda di Brandizzo: con i mezzi attuali è inconcepibile che dei lavoratori possano sentirsi dire “quando dico treno…spostatevi”. Un’assurdità che però nasconde altre finalità come quella che il tempo è guadagno, il resto viene dopo. Tanto è vero che fra le vittime del lavoro compaiono anche imprenditori costretti dalle circostanze a tener conto dei tempi e della economicità del lavoro rischiando.
Inoltre, si è detto più volte che l’Inail ha risorse superiori a quelle che spende: soldi utili non solo per la prevenzione ma anche per attrezzare meglio i controlli. È notorio che il numero degli ispettori è tuttora esiguo, è facile constatare che non vi è ancora alcun intreccio efficace fra le varie autorità preposte al sistema dei controlli, mentre è purtroppo sotto gli occhi di tutti che la formazione è presente a parole molto meno nei fatti.
L’Italia dell’economia, del resto, ma anche quella della politica e di parte delle Istituzioni non ha mai avuto molta familiarità con la cultura dei controlli che spesso quando si manifesta mostra un lato esclusivamente punitivo, mentre più raramente appare come l’indice di una condotta che condiziona l’iniziativa economica in modo tale da garantire valori come la vita, la legalità e la dignità del lavoro.
Infine, c’è da chiedersi dopo Brandizzo, ma anche Viterbo e Ancona, se la sostanziale povertà di informazione nell’opinione pubblica di giudizi esemplari motivati dopo le inchieste giudiziarie sui ripetuti fatti.
Drammatici nei luoghi di lavoro (anche solo come deterrente), non finisca per contribuire a considerare la tematica della sicurezza come un argomento di valore ben inferiore a quello che dovrebbe avere. Per non parlare della sua irrilevanza nei confronti degli slogan ricorrenti sui quali si basano le politiche e l’azione dei gruppi dirigenti. Sarebbe infatti assai difficile ricordare fra le priorità dei programmi politici un posto di rilievo per la lotta alle morti sul lavoro negli ultimi anni.
Eppure, anche nel mondo del lavoro non può mancare una riflessione che vada anche oltre le giustissime rivendicazioni che intendono incalzare Governo e Istituzioni. C’è una subcultura dell’economia che ha effetti negativi anche sul tema della sicurezza. È una delle conseguenze, probabilmente, della ventata liberista che in questi trenta anni non ha risparmiato alcuno schieramento politico. Quella idea che l’attività economica si valuta esclusivamente sui parametri del successo e del guadagno, trascurando le conseguenze che ne possono derivare sull’etica e la pratica del lavoro. Naturalmente dopo la grande crisi del 2008 e la pandemia, tale concezione ha ripreso piede velocemente senza che però fosse contrastata da una lettura che mantenesse nel giusto valore quelle garanzie per la vita dei lavoratori e contro il loro sfruttamento che sono essenziali in una società che vuol dirsi civile. E, come avviene di solito, le necessità e la stessa mentalità prevalente – oltre il successo ed il guadagno, niente – hanno fatto breccia anche nei comportamenti dei lavoratori che in alcuni casi si sono sentiti costretti non ad abbassare la guardia, ma certamente a subire l’inosservanza di norme e contratti che regolano loro sacrosanti diritti. Non si tratta ovviamente di accusare i lavoratori, insomma, purtroppo vittime certe di questo stato di cose, ma di porre l’accento sul ruolo che possono esercitare tutte le realtà attive sul piano culturale e sociale che si battono per la centralità del lavoro, nel quale la sicurezza è elemento essenziale. Si tratta di rivendicare un pensiero sociale che dia fondamento ad una nuova capacità di lotta e di proposta in grado di opporre sacrosanti diritti dei lavoratori a logiche che invece ne deprimono l’utilità e talvolta anche la validità.
Intendiamoci: i gravi incidenti sul lavoro sono il frutto di cause ben al di sopra di queste argomentazioni, riguardano pratiche illegali, superficialità colpevoli, omissioni inaccettabili, aggiramento delle norme a partire da quelle contrattuali. Rimane però l’impressione che andando più a fondo emerga anche l’esigenza che specialmente nella cultura riformista si torni a praticare una forte ed incisiva critica dei risvolti più sconsiderati ed illegittimi di una economia improntata senza più ostacoli a richiami di tipo liberista, con la falsa affermazione che l’economia debba andare avanti costi quel che costi, anche perché la tecnologia prima o poi risolverà i problemi. Questa sorta di “pensiero unico” è non solo un passo indietro nella realizzazione di una vera società del lavoro ma anche un pericoloso invito a trascurare le tutele necessarie per evitare drammi per chi subisce incidenti e per le loro famiglie.
Su questo versante c’è dunque un importante lavoro culturale e di iniziativa sociale da fare perché anche in questo modo si può circoscrivere l’indifferenza ed il senso di fatalità che, malgrado tutto, si aggira ancora attorno agli incidenti del lavoro, mentre essi continuano a costituire una minaccia quotidiana che va fermata.
Paolo PIRANI
Consigliere CNEL