“Quando c’è un danno alla salute od un infortunio dovrebbe esser automatico l’intervento del Comune o dello stato, invece al posto dell’ufficiale sanitario arriva l’ufficiale dei carabinieri a stendere il rapporto…”. E’ il pensiero di un operaio dell’Italsider raccolto da una inchiesta compiuta alla fine degli anni ’60 sulla salute nelle fabbriche.
Quest’anno da questo punto di vista è iniziato molto male: più di 150 vittime in tre mesi, 50 e più al mese è un consuntivo orribile.
La risposta dello Stato non è certo di quelle che rincuorano se fa testo il freddo comunicato uscito dal Ministero del lavoro secondo il quale le morti sul lavoro fanno riferimento alle casistiche statisticamente ricorrenti. Insomma non ci sarebbero novità, si ripetono incidenti ben noti e letali. Un ragionamento che francamente lascia l’amaro in bocca per l’approccio che, vista la gravità degli episodi, si è dedicato ad un problema tanto drammatico: sembrerebbe quasi che siano passati invano alcuni decenni dell’atteggiamento pubblico rispetto alla considerazione dell’operaio dell’Italsider su una questione così angosciante.
Non vale la pena di perdersi in accuse sterili. Semmai è opportuna una riflessione sul come si è arrivati a dover contare tanti morti in poche settimane.
Si muore in tutti i settori di lavoro malgrado la cospicua legislazione che regola in un testo unico questa scottante e dolorosa materia. Le avvisaglie erano però visibili già l’anno scorso con un bilancio di morti sul lavoro superiore a quello del 2016, 1029 contro 1018. E più di seicentomila infortuni che non possono essere considerati meno gravi per le conseguenze sociali che determinano e le condizioni di povertà nelle quali si trovano a versare gli invalidi spesso a capo di migliaia di famiglie.
La dinamica degli episodi mortali diventa dunque un grido di allarme che sta risuonando da mesi senza ottenere il dovuto ascolto. Eppure si sa bene che ogni qualvolta la ripresa economica si affaccia crescono i rischi sul lavoro e provocano lutti e inabilità.
Macchine che schiacciano lavoratori, trattori che li travolgono, intossicazioni che spengono vite, impalcature insicure che fanno precipitare i malcapitati che le calcano.
Ed è questa solo una parte della casistica che ha reso il lavoro di questi mesi nei cantieri come nei porti o nelle fabbriche una guerra atroce ed inaccettabile alla quale si deve necessariamente rispondere in modo assai diverso da quello di un semplice invito ad alzare la guardia.
Ma che non ci sia spazio per la sorpresa era chiaro anche per i danni di una lunghissima recessione che ha inevitabilmente frammentato l’attività economica ed allentato fortemente le tutele malgrado gli sforzi sindacali.
L’eredità della crisi è anche composta di nuovo lavoro nero ed irregolare, ha costretto lavoratori anziani ultra cinquantenni a continuare a lavorare in condizioni precarie tanto che il loro tributo di sangue è pari, secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna, al 25% di quello complessivo. E purtroppo in questo caso non è stato irrilevante nemmeno il meccanismo introdotto per le pensioni dalla legge Fornero.
La concentrazione degli incidenti mortali nelle regioni più dinamiche sul piano economico doveva costituire un altro campanello di allarme. Veneto e Lombardia con più di venti vittime guidano questa triste graduatoria, ma già l’anno scorso Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte avevano registrato cifre pari o superiori alle 60 unità.
Lo scenario è dunque quello tipico di un disastro annunciato ma almeno in parte colpevolmente sottovalutato. Ma a completare questa penosa ricostruzione va ricordata anche la denuncia dell’Anmil che difende i lavoratori colpiti da infortuni, secondo la quale manca all’appello il compimento di una ventina di decreti attuativi del testo unico sulla materia della salute nel lavoro varato nel lontano 2008.
Ma non possiamo prendercela solo con gli effetti della recessione. L’attenzione agli infortuni ed alle morti sul lavoro è diminuita notevolmente anche perché il confronto politico e gli indirizzi di governo di questi anni non l’hanno più considerata strategica e non solo per il fatto che vi era un rallentamento di queste dinamiche ma anche perché nella seconda Repubblica le sirene liberiste hanno demonizzato ogni tipo di vincoli alla attività delle imprese. Senza considerare che un conto C’è l’oppressione burocratica un altro è la tutela delle condizioni di lavoro. Con il risultato di tagliare le gambe ed anche una certa legittimità di fatto ai controlli ed agli stessi sforzi degli Enti preposti a monitorare questo fenomeno. Ma anche nel mondo imprenditoriale l’alibi della crisi ha prodotto comportamenti negativi.
Lo stesso movimento sindacale, va ammesso, di fronte alle grandi difficoltà economiche e lavorative e sotto la spinta di una crescente frattura nel mondo del lavoro non sempre è riuscito a mantenere alta la guardia su questo grande problema.
Da dove ripartire? Da una convinzione inoppugnabile: il lavoro non è e non deve essere una guerra. Il lavoro è dignità se riesce anche a garantire l’incolumità del lavoratore. Il lavoro è progresso se non lascia sul campo oneri sociali tanto pesanti come la morte di chi lavora.
Non a caso come Uil abbiamo proposto un grande piano di prevenzione nazionale. Perché è dalla prevenzione e dalla informazione che si deve ricominciare a considerare il tema della salute nei luoghi di lavoro un test fondamentale per la qualità della crescita economica e delle relazioni industriali.
Ben venga allora una ripresa di confronti fra le istituzioni per coordinare efficacemente l’iniziativa di controllo e prevenzione nel territorio. Ben venga il coinvolgimento delle parti sociali. Ma bisogna intendersi su cosa significa tutto questo: se è un modo giustificatorio oppure se fa parte di un nuovo progetto di interventi in grado di reggere nel tempo, di avvalersi dei nuovi strumenti tecnologici a disposizione, di creare con la formazione di imprenditori e lavoratori una solida conoscenza dei rischi sul lavoro, di riorganizzare i compiti dei vari enti che si interessano di questo problema senza sovrapposizioni e senza inutile invadenza burocratica.
Ma occorre un innegabile salto di qualità nella cultura civica del Paese nei confronti di problemi e rischi come quelli che infestano il mondo del lavoro. Ed a questo proposito sono due gli itinerari che vanno percorsi: restituire un posto di rilievo al problema della salute nei posti di lavoro nella contrattazione e procedere con coraggio e lungimiranza sul terreno della partecipazione.
Un tempo le condizioni di lavoro erano molto più pesanti e difficili. Il modo di lavorare tayloristico con i suoi ritmi insopportabili era una trappola in perenne agguato: “gli orari sono di 10-12 ore al giorno…i turnisti della notte vengono chiusi a chiave all’interno della fabbrica e per uscire in caso di malore o di incendio è necessario telefonare prima al padrone che è a letto perché venga ad aprire i lucchetti delle porte…”.
Sono testimonianze del tempo andato, atti di accusa che lotte di anni hanno puntato a superare. Oggi il lavoro è cambiato profondamente, ma resta il monito di quei racconti tremendi: il valore della vita e della dignità del lavoro non possono valere il prezzo che ancora oggi si deve pagare.