Non è dato sapere cosa succederà a Pomigliano dopo l’esito del referendum di martedì 22 giugno (un’altra data storica?). E’ quasi più facile esercitarsi su quello che succederà in altre parti del paese, dopo l’importante episodio di Pomigliano.
Poche parole si possono dire, allo stato dei fatti, sul futuro della nuova Panda. Le perplessità della Fiat sull’esito del referendum sono tutte da condividere. Se si cercava una garanzia forte sul rispetto del futuro accordo e il raggiungimento degli obiettivi indicati, questa garanzia ( forte) non è arrivata.
D’altra parte è anche difficile disconoscere il risultato formale del referendum. O ci si crede in questa forma di garanzia economica (e anche chi scrive non ne è mai stato uno strenuo sostenitore), o non ci si crede. Ma una volta che si sceglie questa strada si va fino in fondo. I lavoratori si sono espressi chiaramente e, quindi, dove sta il problema?
Il problema certamente esiste, perché (occorre ripeterlo) se si voleva creare un clima di consenso quasi generalizzato sui contenuti dell’accordo, questo risultato non è stato raggiunto. E senza una forte garanzia, è un problema per la Fiat prendere una decisione irrevocabile di investimento di quella natura e di quella portata. Una volta fatto l’investimento, è evidente che il “manico del coltello” passa dalle mani della Fiat a quelle dei sindacati e dei lavoratori. Come potrà la Fiat, una volta fatto ‘investimento, minacciare di andarsene? Non potrà più farlo e dovrà scendere a patti. Da qui nasce la assoluta necessità dell’azienda di legare le mani dei sindacati prima e non dopo, per assicurarsi contro l’eventualità di comportamenti opportunistici una volta fatto l’investimento.
E’ difficile dire come si svilupperà il “dopo referendum”. Certamente le parti che condividono l’accordo hanno bisogno di spegnere i riflettori che illuminano troppo la vicenda. Troppo è l’interesse suscitato da parte di opinione pubblica e di mondo politico. Si rischia di snaturare il metodo del confronto tra le parti che è tipico delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva, Un metodo che ha bisogno di maggiore riservatezza e di più spazio di manovra per le manovre diplomatiche sotterranee. Quando sarà calata un po’ della polvere sollevata ( a ragione) dai mezzi di informazione, la Fiat e i sindacati favorevoli all’accordo si troveranno per discutere il da farsi.
Non credo ad una riapertura del negoziato che includa anche la Fiom. Il ripescaggio della Fiom verrebbe vissuto come uno schiaffo ai sindacati che fin dall’inizio avevano assunto le loro responsabilità. Troppo rigida e barricadiera è stata la posizione della Fiom, soprattutto in occasione del referendum, per rendere probabile una nuova ripartenza, come se nulla fosse accaduto. Questa è la mia impressione, pronta ad essere smentita dai fatti.
Possibile è invece una rivisitazione di alcuni punti dell’accordo che, pur mantenendo intatte le garanzie richieste dalla Fiat, riesca a smussare alcuni di quei punti dell’accordo che hanno convinto anche lavoratori non iscritti alla Fiom o ai Cobas di votare contro.
Detto questo, la domanda che viene continuamente fatta e che merita un tentativo di risposta è : l’accordo di Pomigliano ( se si farà) sarà un nuovo modello per i futuri accordi aziendali? Cambierà la contrattazione aziendale dopo Pomigliano?
Per quanto sia evidente a tutti che ogni accordo faccia storia a sé e che non esistono né esisteranno molti casi di imprese italiane multinazionali disposte ad investire 700 milioni per un nuovo modello di automobile, e che quindi questo caso sia in qualche modo irripetibile, detto questo, è altrettanto evidente che questo accordo, se dovesse andare in porto, qualche cosa cambierà nel panorama italiano delle relazioni industriali. Non credo ( ripeto: sempre che si faccia) che possa passare come “acqua fresca” sul futuro della contrattazione aziendale di questo Paese.
Vi è peraltro, un punto a favore della tesi di coloro che sostengono che si tratti di un episodio irripetibile. Il punto riguarda il fatto che siamo in profonda recessione dell’economia e di crisi dell’occupazione. In tutto il mondo e tutte le volte che si sono verificate condizioni questo tipo, il compito dei sindacati è stato di contrattare concessioni in termini di salari e di flessibilità del lavoro, in cambio di posti di lavoro. Da questo punto di vista il “concessions barganing” non lo hanno invitato né la Fiat, né la Cisl o la Uil. E’ sempre esistito, salvo poi scomparire, o meglio ridimensionarsi, nei momenti di ripresa della normale attività economica.
Però ho l’impressione che Pomigliano comporti qualche cambiamento di carattere anche strutturale e non solo legato alla congiuntura economica sfavorevole. Alcuni aspetti dell’accordo presentano un grado di novità che va oltre la contingente necessità di salvare posti di lavoro. E di salvarli, va ricordato, in una area del Paese che soffre da sempre di scarsi livelli di occupazione.
Le novità, se ci sono, come qualcuno ha osservato, sono state anticipate da altri accordi aziendali firmati in questi ultimi tempi. Ma il fatto che esse sfocino anche in un accordo della portata di quello di Pomigliano, rappresentano, per modo di dire, una consacrazione di un modo diverso di fare contrattazione aziendale
In che cosa consistono le novità? Secondo il mio parere riguardano due aspetti, tra loro strettamente correlati. Il primo sta nel fatto che cambia il ruolo delle parti al tavolo negoziale. Questa volta è l’azienda che chiede un livello di flessibilità superiore a quello previsto nel contratto nazionale o che, per lo meno, intende forzare il contratto nazionale per avere qualche margine di manovra in più ( in questo caso sugli orari) da esercitare nella organizzazione della propria manodopera. Il secondo aspetto è che l’azienda non si accontenta più di soli impegni politici sia pure sottoscritti. Vuole qualche cosa di più : vuole delle sanzioni precise , sia di carattere individuale che collettivo, nel caso i comportamenti o i risultati non si dimostrino coerenti con quelli previsti nell’accordo.
Si tratta di novità di non poco conto.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ricordiamo che sino a poco tempo fa erano le aziende a chiedere che il contratto nazionale fosse “esigibile” e che non fossero rimesse in discussione dai sindacati aziendali (quelli più conflittuali), i vantaggi ottenuti ( e pagati con forme di scambio) a livello nazionale. Questo è un fenomeno che si è frequentemente presentato ( e di cui le associazioni imprenditoriali si sono sempre lamentate) proprio in quel settore (metalmeccanico) cui appartiene la Fiat e dove il conflitto sindacale è più acceso. Ora le parti si sono invertite ed è paradossalmente la Fiom che chiede il rispetto del contratto nazionale ed è la Fiat che sostiene che non gli basta, ma che vuole di più ( soprattutto in termini di turni e di pause) per garantire un adeguato rendimento del proprio investimento. Si può discutere sulla natura e sull’entità dello “strappo” che la bozza dell’accordo di Pomigliano compie nel confronto del contratto nazionale, ma non vi è dubbio che la direzione di marcia è quella delle “clausole di uscita” introdotte nell’accordo sul nuovo modello contrattuale. Che la CGIL non ha firmato e che, regolarmente, non riconosce nemmeno ora.
Se l’accordo avrà successo, costituirà certamente un precedente (o rafforzerà ulteriormente i precedenti casi aziendali che ci siano già stati) e forse convincerà ancor di più le associazioni imprenditoriali a lasciare più spazio alla contrattazione aziendale e a limitare i contenuti del contratto nazionale. E di rinviare lo “scambio” a livello aziendale.
Il secondo aspetto riguarda il tipo di garanzie richieste per il rispetto dell’Accordo. Non basta alla Fiat la firma dell’articolato del contratto, ma vuole che siano introdotte clausole sanzionatorie che scattino sia nei confronti dei singoli che nei confronti di tutti i lavoratori e dei loro rappresentanti, se gli impegni scritti non trovano adeguata realizzazione nei comportamenti concreti. Gli impegni vanno onorati e “chi sgarra, paga”. Si tratta di un discorso piuttosto crudo e anche abbastanza nuovo. La Fiat, per lo meno, non si era mai azzardata a farlo, sinora. Cosa l’ha convinta? Le difficoltà congiunturali, settoriali e aziendali? O pretende un cambio di passo deciso e stabile nelle relazioni sindacali che essa intende praticare nel nostro Paese? Ricordiamo che la Fiat è ormai una multinazionale a tutti gli effetti. Certamente le conviene stare e produrre in Italia. Ma non a qualsiasi condizione. Termini Imerese insegna.
E se la Fiat riesce ad ottenere questo, perché domani qualche altra multinazionale non potrebbe chiedere lo stesso? E cosa si risponderà?
Lo sviluppo del Mezzogiorno non vale forse “la candela”?
di Carlo Dell’Aringa, professore di Economia Politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore