Come anticipato oggi da Repubblica, il Mise è pronto a convocare le aziende italiane che fanno ricorso ai call center all’estero, per chiedere loro di firmare un Protocollo d’intesa con l’obiettivo di riportare l’80% dei volumi di chiamate sul territorio nazionale. Una mossa che, secondo le stime del Mise, potrebbe creare 20mila posti di lavoro.
Ad oggi sono circa 80mila gli italiani impegnati nei call center, anche se molte aziende stanno ricorrendo ampiamente alla delocalizzazione per ridurre sensibilmente il costo del lavoro, che rappresenta la voce di spesa principale per chi opera in questo settore. Con il documento che il Mise è in procinti di presentare si spera di invertire questa tendenza.
Naturalmente l’adesione al Protocollo è del tutto volontaria, come sottolinea Paolo Sarzana, presidente di Assocontat, l’associazione nazionale dei contact center aderente a Confindustria digitale. “Non sono previsti parametri vincolanti o precisi su come erogare i servizi, né obblighi per le aziende ad essere in regola con il Durc e dunque a pagare i contributi ai lavoratori, o ad avere un sistema di certificazione di qualità. Senza paletti chiari e inequivocabili, lo sforzo apprezzabile del ministro rischia di trasformarsi in una moral suasion generica. Certo, un tentativo di garantire maggior lavoro in Italia, ma non di rimettere in equilibrio un mondo in cui il servizio offerto non è ancora pagato il giusto”.
Un giudizio negativo giunge da Marco Del Cimmuto, segretario nazionale Slc Cgil, il quale evidenzia l’inefficacia del Protocollo, che ha tuttavia il merito di riportare l’attenzione sul settore delle comunicazioni. Per il sindacalista la bozza del Protocollo ignora quattro aspetti cruciali presentati dalla Cgil. “Primo, superare le gare a minutaggio di conversazione (ti pago tot centesimi al minuto, ma difficile farne più di 40-42 in un’ora) per passare alle gare a corpo (ti pago tot ore a prescindere dalle chiamate). Secondo, inserire l’obbligo di rispondere al cliente in un tempo limitato: un requisito che elimina dal mercato le imprese che si improvvisano call center, senza averne l’organizzazione. Terzo, divieto assoluto di gare in subappalto. Quarto, ammortizzatori sociali ordinari per il settore e non da contrattare di anno in anno nella finanziaria”.
Positive invece le reazioni di Cisl e Uil. Per Vito Vitale, segretario generale di Fistel Cisl, il Protocollo è “un fatto più che interessante, certo, bisogna capire chi e come risponderà. E scommettere sul senso di appartenenza delle aziende al territorio italiano”. Anche Salvo Ugliarolo, segretario generale Uilcom, valuta positivamente il piano Calende, poiché “dà attenzione a un mondo abbandonato a se stesso negli ultimi 5-6 anni, con carenze di regole e vuoti normativi che hanno compromesso la tenuta occupazionale. Chiediamo però al ministro un coinvolgimento anche delle parti sociali”.
Secondo quanto si legge nelle bozze del Protocollo, le imprese che si avvalgono dei call center per gestire i rapporti con la clientela (sia per rispondere a richieste di chiarimento o supporto, inbound, sia per le chiamate di promozione commerciale, outbound) entro sei mesi dalla firma del documento si impegnano a:
- richiedere nelle offerte ai propri fornitori di servizi telefonici alcuni parametri di qualità e cioè: chiarezza, semplicità e correttezza nelle informazioni, un italiano corrente e un linguaggio chiaro e comprensibile (per gli stranieri è indispensabile la certificazione linguistica al livello C1 del Qce), risposte adeguate entro tempi contrattualmente definiti, applicabilità della normativa nazionale in termini di trattamento dei dati personali anche se il servizio è fornito dall’estero, il rispetto delle fasce orarie indicate dalla legge per i contatti telefonici;
- garantire che il 100% delle attività di call center svolte per il mercato italiano in via diretta sia effettuato sul territorio nazionale e che almeno l’80% dei volumi delle attività di call center affidati in outsourcing provenga dall’Italia, escludendo qualsiasi meccanismo di reindirizzamento del traffico verso siti localizzati fuori dal Paese;
- non effettuare aste al massimo ribasso, ma adottare il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’assegnazione dei servizi in outsourcing, valorizzando gli aspetti tecnici e qualitativi dell’offerta;
- fare riferimento per gli affidamenti esterni ad un costo medio del lavoro su base oraria definito dal decreto legislativo n. 50 del 2016, dunque il minimo contrattuale, ovvero sulla base di accordi con i sindacati;
- applicare nei propri contratti di outsourcing la “clausola sociale” e dunque garantire la continuità occupazionale sul territorio nei casi in cui il call center perda la commessa e l’azienda che subentra non sia disposta a mantenere tutti i posti di lavoro.