“Lavoriamo bene e cerchiamo di non dare nell’occhio.” Delle scarse tracce verbali che Michele Ferrero ha lasciato dietro di sé, questa frase, quasi un motto – raccolta da Niccolò Zancan, inviato da “la Stampa” ad Alba – è forse la più adatta a sintetizzare il modo di pensare e di agire di uno dei più riusciti imprenditori italiani. Di lui, infatti, si parlava poco. O almeno, di lui parlavano poco i mezzi di informazione attivi nel nostro Paese. Ma questo non è un caso, né semplicemente una prova dell’insufficiente attenzione riservata dai giornali nostrani alle vicende industriali di quello che è e tuttora rimane, nonostante tutto, un grande paese industriale. E’, al contrario, un prova della capacità di Michele Ferrero, il cui funerale è stato celebrato mercoledì 18 febbraio, di ottenere i risultati voluti. E, assieme, un indizio che ci parla del suo carattere.
Ogni tanto arrivavano dall’estero notizie come quella secondo cui il Reputation Institute, dopo aver effettuato nel 2009 un’indagine in 32 paesi, aveva affermato che il marchio Ferrero era quello dotato della migliore reputazione fra i consumatori, battendo in classifica sia la svedese Ikea che la statunitense Johnson & Johnson. O come quelle diffuse annualmente da Forbes, relative alla classifica dei 100 uomini più ricchi del Pianeta, che vedevano lo stesso Michele Ferrero al primo posto fra i Paperoni italiani, sopravanzando regolarmente Silvio Berlusconi. Ma, detto questo, poco altro. Perché?
Il direttore della Stampa, Mauro Calabresi ha raccontato adesso che Michele Ferrero, qualche anno fa, gli concesse un colloquio in cui non lesinò né racconti, né ragionamenti sul suo modo di agire e di vedere le cose, ma lo fece dietro la promessa che quella bella chiacchierata non si sarebbe trasformata in un’intervista. Mentre secondo Paolo Bricco, del Sole 24 Ore, era addirittura “proverbiale” il “dispiacere di Enzo Biagi, che gli era amico, per non aver mai ottenuto un’intervista” da Ferrero.
E sì che, stando ai racconti, il “signor Michele” si mostrava affabile con i dipendenti. Non viene ricordato, insomma, come un tipo scontroso. Ma riservato sì, molto riservato, almeno al di fuori della famiglia. Solo che, a partire da una concezione forse un po’ paternalistica, per Ferrero anche l’azienda e i suoi dipendenti facevano parte di – o meglio erano – una grande famiglia.
Un uomo riservato, dunque. E questo suo carattere, da uomo all’antica, ha costituito forse la base emotiva di una scelta di comunicazione aziendale perseguita, peraltro, con indiscutibile coerenza. Una scelta, maturata a partire dagli anni 60, che, in termini teorici, è, per così dire, opposta a quella che sarebbe stata fatta a fine anni 90 da Steve Jobs, dopo il suo ritorno alla Apple. L’imprenditore californiano – maglioncino nero, jeans e sneakers – decise di trasformare sé stesso in un’icona che asseverava la qualità dei prodotti della sua azienda. Michele Ferrero si è invece nascosto, puntando ad affermare come stelle del firmamento mediatico – secondo quanto teorizzato da Jacques Séguéla in Hollywood lava più bianco – il marchio Ferrero e, forse ancor più, i principali prodotti della casa. E cioè non solola Nutella (1964), ma i cioccolatini Mon Chéri (1956), Pocket Coffee (1968) e Ferrero Rocher (1982), gli ovetti Kinder (1974), il tè freddo Estathè (1972), e poi le merendine Tronky, Duplo e Kinder Bueno, fino all’ultimo nato, la merendina Nutella B-ready. Per non citare che i più noti.
Vista oggi, a mezzo secolo di distanza dal lancio della Nutella, questa scelta di comunicazione appare tutt’altro che geniale. Anzi, piuttosto tradizionale. Ma cinquant’anni fa le cose non stavano così. E va infatti detto che Ferrero è stato, fra gli imprenditori italiani, uno di quelli che meglio ha usato la pubblicità, in primo luogo quella televisiva. Che all’epoca, gli anni di Carosello, per il nostro paese era una cosa nuova. Ma, soprattutto, si rivelò come la via giusta per imporre quei prodotti che abbiamo sopra ricordato. In Ferrero, e qui sta in gran parte la sua genialità, produzione e comunicazione del prodotto sono una cosa sola.
Di Michele Ferrero, in questi giorni, molti hanno parlato come di un innovatore. E dopotutto, nella chiacchierata con Calabresi di qualche anno fa (pubblicata infine il 15 febbraio scorso), è stato lui stesso a presentarsi così, come uno che pensava “diverso dagli altri”. Ma in che senso? Starei per dire: non tanto nell’invenzione di un prodotto del tutto nuovo, ma nell’ideazione di un modo nuovo di presentarlo. Che alludeva anche a un modo nuovo di consumarlo.
Partiamo da un caso minore, l’Estathé. Fin lì il tè freddo era una cosa che mamme e zie facevano in casa, per accompagnare le merende estive dei ragazzi o per offrirlo a chi veniva ricevuto in una visita pomeridiana. Ma era anche una bevanda preparata manualmente, sempre nei mesi estivi, dai baristi più esperti o dai caffè più raffinati. Con Ferrero, il tè freddo diventa Estathè, cioè un prodotto industriale, una bibita non gasata, adatta specialmente ai bambini, ma anche ad essere portata in gita o in ufficio, e comunque benvenuta in un mondo in cui anche le donne lavorano e tutti hanno meno tempo a disposizione.
Ma l’esempio più classico, da questo punto di vista, è ovviamente quello della Nutella. Sono abbastanza anziano per ricordare che nella mia infanzia, cioè nell’Italia povera degli anni 50, presso gli alimentari di periferia o di paese si trovava il cosiddetto “surrogato” di cioccolata. Al di là del nome poco accattivante, si trattava di piccoli parallelepipedi di carta stagnola, piuttosto schiacciati, che contenevano una pasta al sapore di cioccolato – ma fatta in buona misura con nocciole tritate – spalmabile sul pane. Un buon amico per le merende del dopoguerra. Ora, al di là del fatto che il “signor Michele” abbia elaborato per la sua nuova crema – provando e riprovando – un impasto migliore e più gustoso e una consistenza ancor più spalmabile, la vera innovazione sta nella confezione, adatta all’Italia del boom. Non più carta stagnola, ma vetro. Non più una dose monouso, ma un vasetto, anzi un bicchiere, con tanto di etichetta ben visibile e fatto apposta per essere conservato in frigo. Non più un prodotto minore, riposto nell’ombra delle vecchie drogherie, ma un brand capace di resistere nel tempo e di diventare oggetto di culto. Fino alla consacrazione che gli ha dato il ruolo di coprotagonista in un film non privo di ambizioni intellettuali, come Bianca di Nanni Moretti. Altro che product placement. Qui è la pellicola che deve ringraziare il personaggio-prodotto alimentare se è rimasta nella memoria degli spettatori.
Michele Ferrero, insomma, non ha cercato di fare meglio quel che altri già facevano, ma di offrire prodotti diversi da quelli della concorrenza e, quindi, unici.La Peruginaera arrivata prima rispetto all’idea di produrre e confezionare cioccolatini adatti ad essere venduti singolarmente, e non solo in scatola: i famosi Baci, incartati in una stagnola argentata. Per di più, si trattava di cioccolatini che facevano un uso specifico di nocciole, elemento base del surrogato Giandujot, prodotto dalla Ferrero nel dopoguerra. E allora il signor Michele lanciò il Mon Chéri, anch’esso un cioccolatino destinato alla vendita singola, ma diverso dal Bacio perché si trattava di una pralina con ciliegia al liquore, avvolta in una carta rosa acceso come la passione.
Ferrero, insomma, non ha cercato di battere i prodotti di eccellenza che pure non mancavano, in campo dolciario, nel suo Piemonte. Non ha cercato di fare concorrenza, per dire, alla bottega torinese di Baratti & Milano. Si è invece posizionato su prodotti destinati a un consumo popolare, dunque di massa, ceti medi compresi. Ma realizzati con una cura ancora artigianale, con attenzione estrema a un dato standard, tipico del marchio, al di sotto del quale non si poteva scendere neppure di un millimetro. Perché l’occhio di Michele Ferrero, come raccontò ancora a Calabresi, era rivolto alla Valeria, un idealtipo di consumatrice media, con l’imperativo categorico di non deluderla mai. Pena un crollo nella domanda. E invece, la domanda dei prodotti Ferrero è cresciuta via, via fin dal lontano ’46, generando un’ascesa industriale continua e quasi inesorabile. Un’ascesa che ha portato il laboratorio dolciario, fondato nel 1942 dal padre Pietro, a diventare una multinazionale da 8 miliardi di euro di fatturato annuo, dotata di 20 siti produttivi sparsi in mezzo mondo e di 25 mila dipendenti.
Ma se siamo ancora tutti qui a interrogarci sui motivi e sui meriti del successo della Ferrero, non basta soffermarsi sulle doti di innovatore, di produttore e di venditore del “signor Michele”. Il punto vero, forse, è un altro. E sta nel fatto che Michele Ferrero ha azzeccato l’internazionalizzazione della sua azienda.
Torniamo un attimo indietro, alle origini della casa. Come si è visto, nel 1942, nel pieno della Seconda Guerra mondiale, Pietro Ferrero fonda ad Alba un laboratorio dolciario. Non sappiamo cosa accadde in via Rattazzi, su cui si affacciava la porta del laboratorio, durante i Ventitrè giorni, tra il 10 ottobre e il 2 novembre1944, incui, come racconta Beppe Fenoglio, la città fu occupata dai partigiani, o dopo, quando fu rioccupata dai repubblichini. Sappiamo però che nel ’46, a guerra finita, Pietro mise a punto una crema spalmabile a base di nocciole, e la chiamò prima Pasta Gianduia e poi Giandujot. E che, sempre nel ’46, lo stesso Pietro fondòla Ferrero.Unapiccola azienda a conduzione familiare che, grazie al successo del suo prodotto di punta, dovette cominciar subito incrementare la produzione e a fare assunzioni. Parallelamente, il fratello di Pietro, Giovanni, assunse il compito di costruire una rete di distribuzione dei prodotti aziendali, volta a mettere direttamente in contatto la fabbrica di Alba con i suoi rivenditori.
Nel ’49, Pietro muore. L’anno dopo, Giovanni entra in azienda che, all’epoca, èla Societàin nome collettivo P. Ferrero & C., di Cillario Piera vedova Ferrero e Ferrero Michele. Fin qui, nulla di notevole. Ma la cosa sorprendente è che già nel ‘56 un Michele poco più che trentenne apre il suo primo stabilimento all’estero, a Stadtallendorf, a150 kmda Francoforte. I 5 dipendenti iniziali diventano ben presto 60. Ed è qui, nella Germania laboriosa e depressa del dopoguerra, che, per “confortarela Valeriatedesca”, il signor Michele lancia il Mon Chéri. E lo fa con una campagna pubblicitaria basata su “enormi cartelloni” posti “in ogni grande stazione della Germania” di cui era ancora orgoglioso a cinquant’anni di distanza.
Perché questa giovanile avventura tedesca mi pare importante? Per spiegarlo ricorrerò a un paragone tra Michele Ferrero e Luigi Lucchini. Si tratta di due imprenditori e di due self made men della stessa generazione e di simili origini. Lucchini nacque a Casto, in provincia di Brescia, nel 1919. Ferrero vide la luce a Dogliani, in provincia di Cuneo, sei anni dopo, nel 1925. Il padre e il nonno di Lucchini gestivano una bottega artigiana, dove lavoravano “al maglio” attrezzi in ferro destinati all’agricoltura. E fu qui che, nel dopoguerra, Lucchini impiantò il suo primo laminatoio. Sia Ferrero che Lucchini, insomma, nati in provincia, e nel profondo Nord, seppero profittare delle condizioni particolari del dopoguerra per creare, a partire da un’esperienza familiare artigiana, un’azienda di successo; in campo siderurgico Lucchini, in campo alimentare Ferrero. E seppero poi farla crescere, lungo i decenni di ininterrotto sviluppo che fecero dell’Italia il secondo paese in Europa quanto a produzione manifatturiera.
Fin qui i punti di vicinanza. Ma vediamo le differenze. Prima: Lucchini, nella dura provincia di Brescia, perseguì una linea di scontro con i sindacati metalmeccanici, mentre Ferrero, nelle malinconiche Langhe, puntò a prevenire il conflitto, integrando i suoi dipendenti – per metà operai, per l’altra metà ancora contadini – in una relazione di convenienze reciproche. Seconda: Ferrero si è tenuto sempre lontano dalla Borsa, mantenendo la proprietà familiare di un’azienda via, via cresciuta in modo all’inizio impensabile. E ciò ha potuto fare anche perché, come è stato scritto, aveva trovato nella Nutella, e cioè nelle vendite al dettaglio di un bene di consumo di massa, la sua prima fonte di finanziamento. Lucchini invece, pur essendo anch’egli finanziariamente indipendente, coronò la sua ascesa industriale accettando, a metà degli anni 80, di assumerela Presidenzadella Confindustria ed entrò poi, alla fine dello stesso decennio, nel capitale di Mediobanca e, quindi, nel cosiddetto “salotto buono” della finanza italiana. Insomma, tanto era appartato e periferico Ferrero, quanto visibile e centrale divenne Lucchini. Ma la vera differenza fra i due personaggi la si trova nel terzo punto: quello del rapporto fra crescita e internazionalizzazione.
Nel 1992 Lucchini compra una fabbrica in Polonia,la HutaWarszawa, mentre nel ’99 acquisisce in Francia l’Ascometal. In mezzo fra queste due proiezioni all’estero, rileva dall’Ilva la grande acciaieria di Piombino (Livorno) ela Ferrieradi Servola (Trieste). Come si vide poi, Lucchini aveva fatto il passo più lungo della gamba, creando le condizioni di una crisi irreversibile del suo gruppo. Tanto che, alla fine, furono gli stranieri, e cioè i russi di Severstal, a rilevare Piombino da un Lucchini ormai sconfitto nelle battaglie della competizione globale.
Ferrero, invece, non ha mai fatto il passo più lungo della gamba. Quella della sua azienda è una crescita relativamente costante che non procede per grandi acquisizioni ma per aperture di nuove stabilimenti. Ma, ciò che è ancor più notevole, dei 20 siti produttivi del gruppo, solo 4 sono in Italia: Alba, Pozzuolo Martesana (Milano), Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino) e Balvano (Potenza). Gli altri 16 sono tutti all’estero, distribuiti prevalentemente fra Europa, America del Nord e America Latina, più uno in India, due in Africa e uno in Australia. E sono all’estero perché producono per i mercati esteri.
“Ferrero pioniere del glo-cal”: è questo il titolo posto dal “Sole 24 Ore”, martedì 17, su un articolo di Filomena Greco. Un titolo che forza un po’ i contenuti del testo, ma ci offre la chiave per capire l’essenza del successo del signor Michele. Da un lato le radici piantate a suo tempo e mantenute nei territori circostanti la città di Alba, dai rapporti con i coltivatori che producono nocciole, a quelli con dipendenti ed ex-dipendenti, legati alle attività della Fondazione Ferrero. Dall’altra un occhio lungo, che ha portato lo stesso Ferrero ad acquisire terreni in Cile, per piantarvi alberi allo scopo di avere nocciole fresche tutto l’anno: per alcuni mesi quelle nate nel nostro emisfero, e in altri quelle importate dall’emisfero meridionale. Ma, soprattutto, il punto è la penetrazione dei prodotti della casa di Alba in decine di Paesi. Tanto che, al calare della domanda di dolciumi e merendine che è seguita alla ormai pluriennale crisi economica in corso nel nostro Paese, non si è avuta una contrazione dei volumi produttivi. Al contrario, gli affari della Ferrero prosperano grazie alla domanda estera che sostiene anche parte della produzione italiana.
Michele Ferrero è morto a 89 anni sabato 14 febbraio. Alla guida della ditta rimane il figlio superstite, Giovanni, Ceo dal 1997 (il fratello, Pietro, è morto d’infarto in Sud Africa nel2011, a47 anni). Ma la grande novità è che pochi giorni prima della scomparsa di Michele è stato annunciato l’arrivo di un manager, Aldo Uva, italiano dotato di un ricco curriculum all’estero, Nestlé compresa. Uva affiancherà Giovanni, che risiede in Belgio, alla testa della holding, basata in Lussemburgo. Sembra che i piani aziendali puntino verso ulteriori espansioni in nuovi mercati, Cina compresa. L’azienda, insomma, è sempre più global. Quello che non è chiaro è se e quanto riuscirà a mantenersi anche glocal.
Claudio Sabattini, negli ultimi anni passati alla guida della Fiom, il sindacato metalmeccanici della Cgil, soleva dire che il capitalismo globale era arrivato a una fase in cui le imprese o comprano altre imprese o vengono comprate. Settanta anni di storia della Ferrero smentiscono, fino ad ora, questa teoria. La smentiscono, innanzitutto, perché la prudenza piemontese di Michele ha evitato di compiere acquisizioni avventurose, che avrebbero potuto non solo comprometterne la salute finanziaria, ma anche snaturarne le scelte produttive e il rapporto costruito negli anni con le Valerie di tutto il mondo. Ma la smentiscono anche perché – come ha ricordato Alessandro Genovesi, segretario della Cgil Basilicata, in un recente seminario organizzato dal Diario del lavoro – quandola Unilever aprì una trattativa per acquisirela Ferrero, il signor Michele pose dei paletti non relativi all’eventuale prezzo di vendita, ma alla garanzia che, almeno per una dato periodo di tempo, non breve, non ci sarebbero state chiusure di stabilimenti in Italia e che i livelli occupazionali non sarebbero stati ridotti. Una condizione, questa, giudicata come inaccettabile dalla multinazionale anglo-olandese.
Un episodio che mostra una certa idea di responsabilità sociale dell’impresa e, assieme, la convinzione che il rapporto con i territori in cui sono state piantate le prime radici non è importante solo per l’agricoltura, ma anche per l’industria.
@Fernando_Liuzzi
Nel decennale della morte di Michele Ferrero ripubblichiamo l’articolo del 20 febbraio 2015