La sfida sull’unità sindacale, lanciata da Maurizio Landini tramite il Diario del lavoro, mi ha sorpreso, data la sua biografia. Allo stesso tempo, non nascondo il piacere che ho provato nel leggerla, visto che ha espresso sostanzialmente quello che è anche il mio pensiero. In passato, invece, mi sono sentito distante dal movimentismo di Landini, forse autoreferenziale, soprattutto quando difese ideologicamente il contratto nazionale durante la vertenza FIAT.
Verso la metà degli anni ’90 ricordo un titolo a tutta pagina del nostro quotidiano, Conquiste del lavoro: “sciolgo la CISL”. A pronunciare quelle parole fu Sergio D’Antoni, che si espresse con enfasi dimostrando una grande visione: nell’ambito del bipolarismo politico e della crescente frammentazione del lavoro, il miglior modo per rappresentare gli interessi sociali si sarebbe realizzato attraverso un grande e rinnovato sindacato unitario. Sappiamo come reagì la CGIL di Sergio Cofferati a quella provocazione, e in questi oltre 20 anni il tema dell’unità è stato sostanzialmente escluso dagli ordini del giorno.
In quel periodo ero un giovane operatore alle prime armi, e mi interrogavo in merito all’efficacia dell’azione delle tre confederazioni, divise spesso anche rispetto all’unità d’azione. Dopo la caduta del muro di Berlino, le prime evidenze della globalizzazione sulla qualità del lavoro, l’inizio dell’immigrazione e soprattutto la fine dei partiti storici della cosiddetta “Prima Repubblica” che portarono nella tomba le loro ideologie, il sindacato non poteva pensare di continuare a giocare le sue partite con lo stesso schema del Novecento. Nella migliore delle ipotesi, non avrebbe preso molti goal, ma di sicuro avrebbe segnato poco.
Mi chiedevo che senso avesse organizzare assemblee unitarie con la presenza di più organizzazioni visto che, bene o male, avremmo comunicato tutti lo stesso messaggio. Lo consideravo un enorme spreco di risorse umane ed economiche senza calcolare quelle emotive visto che i lavoratori si stancavano ad assistere al teatrino delle diverse e impercettibili differenze che comprendevano solo noi. Ci si trovava in concorrenza per vendere il medesimo prodotto e questo era sempre meno accattivante. In tempo di obsolescenza artificiale dei beni non era proprio un dettaglio. Per fare gli iscritti era decisiva la qualità e il costo dei servizi. Molto meno la proposta di azione sindacale.
Mi chiedevo anche che senso avessero i lunghi ed estenuanti negoziati tra i sindacalisti per trovare intese unitarie da presentare o negoziare con le controparti. I nostri tempi e le nostre liturgie non tenevano il passo dello sviluppo delle relazioni sociali che l’intelligenza artificiale stava modificando senza che ce ne accorgessimo.
Mi chiedevo se fosse giusto che una o l’altra organizzazione, in assenza di misurazione della rappresentatività, potesse porre un veto alle iniziative delle altre. Ho sempre pensato che in democrazia la maggioranza ha il diritto di decidere per tutti, a tutti i livelli, sul modello delle RSU. L’unanimismo a tutti i costi ha fatto il gioco dei nostri stake holders e infatti il lavoro è diventato sempre più precario e troppo spesso al limite dello sfruttamento. Abbiamo sacrificato i livelli salariali sull’altare dell’occupazione senza preoccuparci troppo della sua qualità e oggi riempiamo le sale a fatica con le chiome argentate. I redditi reali dei nostri rappresentati sono fermi al 1993, ma il sistema contrattuale rimane centrato sul contratto nazionale e il suo numero non accenna a diminuire. Anzi, l’esplosione del terziario e degli appalti di servizi ha determinato il proliferare di accordi depositati al CNEL, anche tra sigle prive di rappresentanza effettiva, che hanno reso inefficace l’art. 36 dello Statuto dei Lavoratori.
Il risultato è stato un decadimento progressivo delle condizioni di lavoro alimentato anche dagli effetti devastanti della crisi economica del 2008 che ha generato quasi 3 milioni di emigrati all’estero compresa la nostra migliore gioventù. Con un’economia prevalentemente a basso valore aggiunto in un ambito formativo inadeguato per quella della conoscenza, l’asimmetria dei rapporti di forza si è ulteriormente sbilanciata a favore di un datore di lavoro sempre più spesso immateriale. Ci rendiamo conto che nell’età della tecnica l’umanesimo è finito?
La tenuta del welfare pubblico, se consideriamo anche l’andamento demografico, sarà seriamente messa in discussione. Per questa ragione la contrattazione dovrà porre al centro della sua azione un welfare integrativo efficace che solo nell’ambito degli ecosistemi territoriali potrà redistribuire e generare quella parte di reddito che oggi va alla quota più ricca della popolazione.
Nonostante fosse chiaro il calo percepito del nostro ruolo sociale, nel tempo le nostre energie, le nostre risorse umane e le nostre risorse economiche sono state destinate sempre più ai servizi individuali e la tenuta degli iscritti si deve quasi esclusivamente ad essi. Oggi le risorse economiche a disposizione sono sempre più scarse perché la media della quota delega pagata dagli associati scende costantemente e parallelamente diminuiscono le libertà sindacali e con la violazione contrattuale diffusa anche le quote di servizio. Facciamo sempre più fatica ad intercettare il lavoro posto ai margini di quello tradizionale a tempo indeterminato e se non ci fossero i pensionati saremmo già in carenza di ossigeno. I nostri organici sono ormai prevalentemente destinati ai servizi, ma questi sono pagati sempre meno dallo stato e in tempi più lunghi del passato. Ci siamo visti costretti a ritirarci dai posti di lavoro e infatti in diversi ambiti del precariato ormai la rappresentanza è stata conquistata dai sindacati di base.
Questo non significa che in alcuni settori il sindacato non eserciti ancora bene il suo ruolo, ma sempre di più anche quello che facciamo di positivo è quasi impercettibile. La nostra modalità di comunicazione è rimasta sostanzialmente invariata se non nello strumento utilizzato. Il dominio della rete ha cambiato anche la dimensione antropologica e culturale delle relazioni, ma noi usiamo lo stesso lessico del passato. Se ce ne rendessimo conto noteremmo che facciamo notizia più in negativo che in positivo e che la rete urla degli scandali trascurando quanto di buono ancora riusciamo comunque a realizzare.
Gli enti bilaterali, i fondi sanitari, quelli interprofessionali e quelli di previdenza complementare ci avrebbero permesso di avere un ruolo nuovo attraverso il quale superare la frammentazione delle unità produttive che la gestione di una mutualità diffusa permetterebbe. Tranne qualche lodevole eccezione abbiamo scelto di gestire questi enti in ambito nazionale. Per usare un eufemismo i risultati non sono certo esaltanti e servirebbe un cambio di paradigma che porti la gestione delle risorse in prossimità dei bisogni che non sono poi così diversi tra un settore e l’altro. Se mettessimo a rete le competenze e le risorse nei diversi ambiti al livello territoriale potremmo utilizzarle in modo più efficiente ed essere percepite positivamente dai nostri stake holders.
In un futuro non lontano la semplificazione del panorama del sindacato confederale potrebbe rivelarsi una scelta obbligata da ragioni economiche. Se attendessimo ancora potrebbe essere troppo tardi. Una rigenerazione richiede risorse sufficienti da investire e dato che solo con un forte movimento sindacale le disuguaglianze potranno diminuire, dovremmo sentire l’obbligo morale di iniziare a parlarne.
La proposta di Maurizio Landini, dunque, spero permetta di aprire un dibattito che non si limiti a ipotizzare una sorta di fusione tra le tre confederazioni, sul modello organizzativo definito con qualche aggiustamento durante i 30 anni gloriosi del Novecento: oggi siamo di fronte a nuove sfide, che richiedono un sindacato nuovo, che sia capace di affrontarle nei tempi che la nostra gente ci chiede.
Michele Buonerba