Tra le cose su cui il piano Colao e i prossimi Stati generali convocati dal governo concordano, c’è il ruolo della nuova tecnologia 5G nel rilancio dell’economia nazionale. Conte ha annunciato che sarà necessaria un’accelerazione del passaggio alla nuova rete super potente; Colao, a sua volta, rilancia chiedendo che l’Italia alzi di almeno dieci volte i limiti imposti dalla legge alle emissioni elettromagnetiche. In parallelo (e a parte lo scontro Usa-Cina) sugli effetti e i possibili rischi rappresentati dal 5G si intrecciano pareri discordi. Il Diario del lavoro ne ha parlato con Emilio Miceli, segretario confederale della Cgil, e per lungo tempo a capo del sindacato di categoria delle Tlc.
Miceli, 5G sì o no? Qual è la posizione della Cgil al riguardo?
La Cgil è pienamente nel 2020, e pensiamo che le sfide tecnologiche vadano sempre accettate. Siamo assolutamente convinti che il 5G sia una di quelle svolte cruciali che riguardano l‘innovazione del paese, la sua capacità tecnologica, la sua digitalizzazione. Rispetto al 4G rappresenta un salto in avanti incredibile per tutto il sistema. E tuttavia, vediamo che c’è anche molta preoccupazione, in giro.
Alcune strutture della Cgil, infatti, hanno espresso contrarietà.
E noi abbiamo rispetto per il confronto, la discussione. Ma non possiamo ragionare in conformità a un’informazione di cattiva qualità, la Cgil non può prendere posizione in base ai si dice. La comunità scientifica non si è espressa rispetto ai rischi. Il governo, il ministero della Salute, dicono che non ci sono evidenze. Dunque, di cosa stiamo parlando?
Da un lato le preoccupazioni, giuste o meno; dall’altro, il piano Colao, che propone di aumentare la quota di emissioni consentita dalla legge riportandola verso la media Ue, dieci volte superiore alla nostra. Come si conciliano questi due opposti?
Ripeto, anche in questo caso occorre affidarsi alla valutazione della comunità scientifica, più che agli standard definiti dai governi, che sono soggetti ad altri ragionamenti meno affidabili.
C’è il rischio che sul 5G si scateni un’altra guerra santa, come sui vaccini?
Rimettere il paese in un circuito simile a quello cui abbiamo già assistito, tra no vax e si vax, sarebbe un grave errore. Noi siamo interessati al 5G, sappiamo che senza questa tecnologia non sarà possibile una digitalizzazione piena del paese. E l’Italia che verrà dovrà essere necessariamente un’Italia digitale: per superare i dati terribili che l’Ocse prevede per la nostra economia non basterà il vecchio modello di sviluppo. Dobbiamo aumentare la produttività del paese, e questo, malgrado quel che pensa Confindustria, non si fa “con le mani”: si fa se s’investe in tecnologia digitale, se le imprese innovano fortemente in questa direzione. Questa è la sfida che ci attende.
Anche diversi sindaci hanno espresso dubbi. Tanto che l’Anci ha dovuto fare una nota esplicativa, che tuttavia sembra non abbia realmente dissipato tutti i timori.
Ma quale comunità scientifica ha fin qui ha avallato questi timori? Abbiamo certamente il dovere di essere prudenti, non lo nego. Ma sapendo, anche, che il passaggio al 5G è cruciale. Lì ci sono i grandi investimenti, lì c’è un pezzo importante del nostro futuro. Se c’è qualche dato che preoccupa, è giusto indagare. Però non possiamo rinunciare a un progetto rifacendoci a quello che gira sui social. Tra l’altro, col passaggio al 5G si potrebbe cogliere l’occasione per rimettere mano a tutto il sistema di Tlc italiano.
Cioè?
Siamo il solo paese che ha due reti fisse, quella di Tim e quella Enel. E’ tempo di ottimizzare, attraverso il conferimento di OpenFiber, la rete Enel, a Tim. Una rete unica, che possa sfruttare questo rafforzamento, questo passaggio verso il digitale, mettendo in piedi una forte compagine per gestire anche il 5G. Sarebbe un grande disegno di politica industriale, con al centro Cassa depositi e prestiti, per ridisegnare la governance di Tim.
In pratica, pensa a un ritorno alle origini, a prima della privatizzazione?
Quel progetto è clamorosamente fallito, e occorre prenderne atto. Dopo la privatizzazione del 1999, anno dopo anno, con le varie scalate e controscalate, con l’avvicendamento di sei o sette diverse gestioni in un ventennio, abbiamo visto l’azienda deperire sotto i nostri occhi. Uno Stato deve interrogarsi sul perche un gioiello nazionale come era Telecom è diventato vetusto, su come è stato possibile che questo accadesse, e su come rimediare. Dobbiamo riprendere il filo delle Tlc, oggi è più che mai fondamentale, proprio in vista della necessaria svolta digitale di cui parlavo prima.
Intende dire che nel settore Tlc ci vuole più stato e meno mercato?
No. Quello di cui parlo è un obiettivo misurato anche per chi crede nel mercato. Senza dimenticare che Tim, come anche Alitalia, sono asset fondamentali per il paese.
Anche Alitalia? Sicuro?
Parliamo tanto del turismo, di rilanciarlo, di salvarlo. Ma dietro il turismo non ci sono solo hotel, antichi borghi o agriturismi: ci sono anche, ma direi soprattutto, i trasporti. Come li fai arrivare i turisti in Italia? Ricordo che Ryanair ha arricchito molte zone del nostro paese, portando turisti dove non sarebbero mai arrivati. Alitalia, dunque, deve certamente stare sul mercato; ma ora, in questo momento, ha bisogno dell’aiuto pubblico per farcela.
Ora, dice lei, ma decine di altri “ora” si sono susseguiti negli anni passati. E’ una vita che si salva Alitalia. Davvero e indispensabile metterci altri miliardi?
Se un’azienda svolge funzione vitale per il paese, non puoi perderla. E questo vale, come dicevo prima, sia per Alitalia sia per Tim.
Nunzia Penelope