di Vincenzo Bavaro
La vicenda del rinnovo della parte economica del contratto collettivo dei metalmeccanici Federmeccanica credo che rappresenti un caso gravido di ripercussioni sui diversi piani della politica sindacale, delle relazioni industriali nonché della tecnica giuridica. Poiché la tensione conflittuale innescata da questo rinnovo contrattuale mi sembra ancora alta, vale la pena intervenire in un dibattito che fino ad ora ha coinvolto soprattutto le parti in causa e meno i giuristi del lavoro.
Credo che la questione possa essere affrontata fondamentalmente da due prospettive: da un lato, quella di merito, e cioè la questione connessa ai contenuti del contratto collettivo su cui si è manifestato il dissenso della Fiom-Cgil. Dall’altra prospettiva, la questione è più propriamente tecnico-giuridica e riguarda l’efficacia soggettiva dell’accordo sottoscritto; in altre parole, vanno chiarite le conseguenze giuridiche conseguenti al fatto che l’accordo collettivo non è stato sottoscritto da tutte le più importanti e rappresentative organizzazioni sindacali di categoria tanto da essere qualificato – impropriamente – come accordo ‘separato’.
Preferirei partire dalle questioni di merito. Il casus belli riguarda l’ammontare dell’incremento retributivo previsto dall’accordo. In sostanza esso ha previsto un aumento della retribuzione (con riferimento al minimo contrattuale relativo al quinto livello di inquadramento) di lire 130.000, lorde mensili a copertura sia del biennio 1999-2000 sia del differenziale negativo fra inflazione programmata e inflazione reale relativa al primo semestre 2001. Com’è noto, il protocollo del luglio 1993 prevede un sistema di recupero del potere d’acquisto delle retribuzioni basato su un elemento diagnostico – il differenziale tra inflazione programmata e inflazione reale del biennio precedente – e su un elemento prognostico – l’inflazione programmata dal Governo per il biennio successivo.
Un primo aspetto riguarda, appunto, l’applicazione di questo meccanismo. L’integrazione retributiva del contratto può essere articolata in tre voci: 84.100 lire per l’inflazione programmata 2001/2002; 27.900 lire per lo scarto dell’inflazione pregressa; 18 mila lire per il differenziale inflattivo relativo al primo semestre 2001. Quello che è interessante notare è che, se escludiamo le 18.000 lire relative al quinto semestre e di cui dirò dopo, l’accordo ha previsto 112.000 lire di recupero del potere d’acquisto dei salari rispetto alle 120.000 lire della piattaforma. Già rispetto all’applicazione dei differenziali d’inflazione si registra un ritocco verso il basso rispetto ad una rigorosa applicazione del protocollo. Infatti, lo scarto d’inflazione nel biennio 1999-2000 è dell’1,2%, mentre le 27.900 lire corrispondono all’1%: c’è, quindi, uno scarto dello 0,2% (in sostanza 8.000 lire). Vero è che il protocollo ha stabilito soltanto dei criteri per guidare la negoziazione collettiva e non dei meccanismi rigidi; tuttavia, seppur di 8.000 lire, il contratto ha limato verso il basso anche il recupero salariale.
Il contratto, oltre a questi due elementi, ha stabilito di corrispondere una somma, pari a lire 18.000, ‘a copertura dell’inflazione effettiva fino a tutto il 30/6/2001’; in altre parole, il contratto ha già inglobato nell’aumento della retribuzione il differenziale tra inflazione reale e inflazione programmata relativo al primo semestre del 2001, sottraendolo così alla prossima tornata contrattuale. Il contratto, dunque, ha riguardato cinque semestri anziché i quattro compresi in un biennio. Complessivamente, però, potrebbe apparire che la differenza fra piattaforma e accordo sia di sole 5.000 lire; a ben vedere, la differenza è più consistente perché se alle 130.000 lire complessive previste dal contratto sottraessimo le 18.000 lire che riguardano il 1° semestre 2001 – ricordo, ulteriore rispetto al biennio 1999-2000 – risulterebbe che l’aumento retributivo previsto per il biennio è di lire 112.000 rispetto alle 135.000 della piattaforma rivendicativa. Si tratta, dunque, di una differenza di 23.000 lire.
Non è qui la sede per valutare se questa cifra valga oppure no la rottura delle trattative e – fatto ancor più rilevante – dell’unità sindacale con Fim e Uilm, poiché si tratta di una valutazione che attiene alla sfera della politica sindacale. Men che meno, ritengo che ci si debba addentrare in questioni contabili sulla giustificazione delle rispettive proposte. Non di meno, l’accordo stipulato non corrisponde alla piattaforma rivendicativa approvata dai lavoratori per una somma di denaro superiore a quella che appare a prima vista.
C’è una seconda ragione di conflitto che – dico subito – mi sembra meno ‘pretestuosa’ della prima. Essa, d’altronde, fa da sfondo alla piattaforma rivendicativa sindacale poiché ha ad oggetto la competenza del livello nazionale di contrattazione nell’operare una sorta di redistribuzione degli incrementi di produttività registrati nell’intero settore metalmeccanico. La Fiom, a sostegno della piattaforma, ha rivendicato al contratto collettivo nazionale non solo la funzione di mero adeguamento dei salari al costo della vita attraverso i differenziali inflazionistici ma anche quella di strumento di partecipazione collettiva agli incrementi di produttività dall’intero settore metalmeccanico.
Di questa richiesta è lecito avere qualsiasi opinione. E’ lecito che appaia politicamente ‘maldestra’ (come ha scritto Caprioli, in Il Diario del Lavoro. il 20 luglio u.s.) ovvero ‘bizzarra’; ma se questa richiesta appare tale ‘in quanto non prevista dallo schema contrattuale del 1993’ (Accornero, nell’intervista pubblicata l’11 luglio u.s., in Il Diario del Lavoro) allora l’opinione è infondata. A me pare che il protocollo del 1993 sia molto chiaro: al punto 2 (Assetti contrattuali), par. 2, comma 2, si legge che ‘per la definizione [della] dinamica [economica] sarà tenuto conto…[anche]…del raffronto competitivo e degli andamenti specifici del settore’. ‘Andamenti del settore’ è una espressione fin troppo esplicita; certo, taluno potrà interpretare la clausola come un ‘dovere’, talaltro come una ‘possibilità’; è questione di interpretazione. Tuttavia, nessuno può escludere che il contratto nazionale attribuisca questa funzione di redistribuzione. Peraltro, questa precisa competenza non va confusa con la competenza attribuita dal protocollo (punto 2, par. 3) alla contrattazione aziendale in materia di partecipazione retributiva agli ‘incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività’. Nel sistema contrattuale vigente, spetta anche al 2° livello la contrattazione sui c.d. premi di produzione relazionati agli incrementi di produttività aziendale. Anzi, da tempo una dottrina fa rilevare che proprio questo punto del protocollo stabilisce esplicitamente gli incrementi di produttività aziendale ‘potranno essere impegnati per accordo tra le parti, eccedente quella eventualmente già utilizzata per riconoscere gli aumenti retributivi a livello di Ccnl’ (corsivo mio) richiamando un’eventuale redistribuzione di produttività operata dal contratto nazionale. In sostanza, ‘il ccnl…continua ad avere la funzione di aumentare i salari reali, incidendo sulla distribuzione del reddito tra imprese e lavoratori’ (Bellardi, Concertazione e contrattazione, Cacucci, 1999, p. 119). Le due forme di partecipazione retributiva, dunque, vanno tenute ben distinte poiché in un caso si tratta di produttività (o redditività, o altro) aziendale nell’altro (il nostro) di produttività settoriale. Confutare la legittimità della richiesta della Fiom in base ad una presunta ‘confusione’ rinvenuta nel testo del protocollo non mi sembra argomento convincente: ai due livelli di contrattazione spettano due autonome funzioni di redistribuzione della ricchezza prodotta.
A ben vedere, d’altronde, ogni previsione normativa ha una sua (buona o cattiva) razionalità. In questo caso, credo che sia rilevante tenere in considerazione il contesto che finisce, sovente, per condizionare l’effettività del sistema contrattuale di eventuale corresponsione di integrazioni retributive legate a incrementi di produttività. Secondo l’interpretazione che ritengo di contestare, spetterebbe soltanto alla contrattazione aziendale negoziare questo tipo di incremento salariale. Premesso, come ho appena detto, che questa esclusività non risulta dal protocollo, la contrattazione aziendale ‘capace’ di contrattare un ‘premio di produzione’ esige che in ogni realtà aziendale sia presente una rappresentanza sindacale poiché, per esempio, proprio il contratto nazionale Federmeccanica ha stabilito che spetta alle Rsu (affiancate dalle strutture sindacali territoriali) la competenza a negoziare. Sennonché quella contrattazione è negata in principio quando manca alcun tipo di rappresentanza sindacale aziendale e come, d’altronde, accade nella maggior parte delle aziende medio-piccole. La conseguenza è che riservare alla contrattazione aziendale la redistribuzione degli incrementi di produttività spesso si rivela una formula evanescente se quella contrattazione manca perché manca chi deve contrattare; fenomeno assai diffuso. Infine e a proposito, faccio notare che è davvero singolare che questa interpretazione faccia coppia sovente con la diffidenza verso un intervento legislativo che garantisca la presenza di rappresentanza sindacali in ogni luogo di lavoro.
Discorso analogo vale per le aziende con meno di 15 dipendenti, escluse dall’accordo interconfederale sulle Rsu, dove non è chiaro quale soggetto dovrebbe essere in grado di negoziare forme di integrazione retributiva allorché si producano consistenti incrementi di produttività, redditività, ecc. In altre parole, la partecipazione retributiva alla (maggiore) ricchezza prodotta in ciascuna azienda diventa una formula vuota quando, per diverse ragioni (soprattutto per la mancanza dell’agente negoziale), non esiste contrattazione aziendale. In questa prospettiva andrebbe letta la norma del protocollo prevista al punto 2, par. 3, comma 3, che, con espressione un po’ involuta, lascia intendere che alle piccole imprese si applica soprattutto ed esclusivamente il contratto nazionale nella consapevolezza che la contrattazione di 2° livello, in questi casi, è di fatto inesistente. Insomma, nelle aziende in cui non si può procedere alla costituzione di Rsu e, quindi, non vi sarebbe contrattazione per partecipare alla ricchezza prodotta, questo fine verrebbe perseguito dalla contrattazione nazionale. Vorrei dire, allora, che la redistribuzione di produttività settoriale nel contratto nazionale è non solo possibile ma anche auspicabile.
L’altra questione che attribuisce rilievo alla vicenda del rinnovo del contratto dei metalmeccanici riguarda l’efficacia giuridica dell’accordo. Si tratta della c.d. ‘separatezza’: il contratto del 3 luglio 2001 per il biennio economico è stato sottoscritto soltanto dai sindacati Fim e Uilm con il dissenso della Fiom. Mi preme subito precisare che da un punto di vista giuridico non esiste un contratto collettivo ‘separato’. Infatti, esso è niente altro che un contratto collettivo di diritto comune sottoscritto – nel nostro caso – tra Federmeccanica e due organizzazioni sindacali. La ‘separatezza’ assume rilievo nel momento in cui proviamo a rispondere alla domanda: qual è l’efficacia soggettiva di questo accordo? In altri termini, a chi si applica quel contratto?
Ebbene, la questione è antica. La mancata attuazione dell’art. 39 Cost. nella sua seconda parte ha prodotto una spossante elaborazione dottrinale e giurisprudenziale per tentare di armonizzare la natura di diritto privato del contratto collettivo – e quindi l’efficacia limitata ai soli aderenti alle organizzazioni firmatarie – con la naturale vocazione dello stesso contratto a regolare l’intero gruppo di lavoratori di riferimento (l’azienda, il territorio, la categoria, ecc.). In questa sede non è certo neanche il caso di accennare alla complessità del dibattito sull’art. 39 Cost. A me interessa sottolineare che pare essere ancora indiscussa l’efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo. Esso è un contratto che non ha efficacia generale nei confronti della categoria perché l’unico contratto collettivo che potrebbe essere dotato di tale natura giuridica è soltanto quello sottoscritto ex art. 39 Cost. Rebus sic stantibus, l’applicazione di un contratto collettivo ai singoli rapporti di lavoro passa attraverso l’iscrizione del datore di lavoro e del lavoratore all’organizzazione stipulante oppure attraverso la volontà, espressa o tacita, manifestata dalle parti del contratto individuale. Non intendo negare che, in dottrina, il dibattito sulla (generalizzazione dell’) efficacia del contratto collettivo è piuttosto vivace; tuttavia, qui ci si muove nella pura e semplice prospettiva privatistica. Altro ancora è, poi, il fatto che si tratta di un contratto collettivo sulla retribuzione e che, quindi, riguarda l’art. 36 Cost, come accennerò dopo.
Ad ogni modo, credo di poter concludere che l’accordo siglato è efficace soltanto nei confronti dei lavoratori iscritti alla Fim e alla Uilm nonché ai lavoratori non iscritti che volontariamente manifestino (espressamente o tacitamente) il consenso alla nuova retribuzione. Nel caso dei lavoratori della Fiom e di tutti gli altri lavoratori non iscritti e dissenzienti quel contratto non dovrebbe avere efficacia. Da questo punto di vista, la richiesta della Fiom di proseguire le trattative appare del tutto legittima ancorché legata alla capacità negoziale di riaprire effettivamente il negoziato con Federmeccanica.
In realtà, non ci si può nascondere che appellarsi all’efficacia limitata dei contratti collettivi può apparire un atteggiamento che, per quanto giuridicamente rigoroso, non tiene conto dell’evoluzione storico-giuridica del contratto collettivo nella direzione della sua ‘generalizzazione’. Tuttavia, la natura giuridica è privatistica e, pertanto, de iure, l’efficacia ‘generalizzata’ del contratto collettivo passa attraverso il consenso (esplicito o tacito) dei lavoratori. Questo consenso, a sua volta, è la conseguenza de facto della percezione da parte dell’intero gruppo di lavoratori di un determinato contratto collettivo come il migliore atto a tutela del proprio interesse e, quindi, la mancanza di dissenso potrebbe rappresentare l’indicatore del consenso tacito. Come a dire che se tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti acconsentono all’applicazione del contratto questo ha un’efficacia non generale ma generalizzata.
Orbene, mi sembra chiaro che quella percezione da parte del gruppo collettivo non è altro che il risultato della capacità dell’agente negoziale di rappresentare gli interessi del gruppo; più è alta la capacità rappresentativa di chi contratta, più sarà diffusa quella percezione. E’ il vecchio discorso sulla rappresentatività. In altre parole, è la rappresentatività dell’agente negoziale a rendere generalizzata l’applicazione del contratto collettivo senza alcun intervento esterno ma solo con il consenso dei lavoratori. Il mio ragionamento, mi sembra, è sulla stessa linea sostenuta dal prof. D’Antona nell’ultimo suo saggio. Egli addirittura sostenne che l’effetto generalizzato del contratto collettivo avrebbe potuto perseguirsi agendo non sulla natura giuridica del contratto collettivo ma sulla rappresentatività dell’agente negoziale. Insomma, il problema non è tanto quello di risolvere la natura giuridica del contratto collettivo attuando o modificando l’art. 39 Cost. ma di avere un agente negoziale effettivamente rappresentativo interpretando quella norma.
Tornando al nostro contratto, allora, l’accordo è stato raggiunto senza il consenso del sindacato che nella categoria ha il maggior numero d’iscritti e senza neanche aver verificato almeno il consenso dei lavoratori, su un contratto – peraltro – difforme dalla piattaforma da loro approvata. Sotto il primo profilo, la puntualizzazione sul numero d’iscritti, all’apparenza capziosa, si rivela necessaria quando si parla di rappresentatività sindacale poiché da più di trent’anni si guarda anche (e prima di tutto) al numero d’iscritti a ciascun sindacato come criterio di misurazione della rappresentatività. Beninteso, non si tratta di fare la conta perché, altrimenti, dovremmo sommare il numero degli iscritti alla Fim con quelli alla Uilm e compararlo con quello degli iscritti alla Fiom. Il punto è un altro: quale percezione potrebbe avere il gruppo rappresentato del contratto collettivo sottoscritto da due organizzazioni sindacali e senza il consenso del sindacato con più iscritti? Certo, la percezione potrebbe essere comunque positiva ma allora bisognerebbe verificare il consenso dei lavoratori dell’intera categoria. E qui siamo al secondo profilo. E’ francamente difficile pensare alla rappresentatività sindacale prescindendo dalla massa dei lavoratori della categoria, senza contare sul fattore associativo. Quella che dal punto di vista sindacale può apparire una opportunità politica è dal punto di vista giuridico una necessità per l’efficacia del contratto collettivo. Il consenso dei lavoratori, iscritti e non iscritti, è stato alla base delle rappresentanze sindacali elettive.
L’emblema di questa vicenda credo che sia tutto qui. Sia che si punti all’efficacia generale del contratto collettivo attraverso l’attuazione dell’art. 39 Cost., sia che si ricorra alla generalizzazione consensuale, il passaggio obbligato è quello della rappresentatività dell’agente negoziale a partire dal dato quantitativo. Dirò di più: sia che si tratti di numero di lavoratori iscritti, sia di numero di lavoratori in genere, questo accordo, al momento non può dirsi espressione dell’interesse collettivo della categoria.
Infine, non intendo sottrarmi alla questione tecnica conseguente all’efficacia limitata dell’accordo. Come ho detto, l’incremento retributivo sarà efficace per tutti i lavoratori iscritti a Fim e Uilm nonché per i non iscritti (soprattutto nuovi assunti) che manifestino il consenso espresso o tacito a quel contratto. Quale retribuzione sarà corrisposta, invece, ai lavoratori dissenzienti, soprattutto a quelli iscritti alla Fiom? Si potrebbe sostenere che essi sarebbero lavoratori in vacanza contrattuale cui corrispondere la relativa indennità fino ad un eventuale nuovo contratto. L’aspetto che rende più articolata la questione riguarda il fatto che questo accordo ha ad oggetto la retribuzione che, per orientamento unanime della giurisprudenza, è l’unica clausola contrattuale ad avere efficacia, se non erga omnes, almeno ultra partem.
E’ noto che qualsiasi lavoratore può rivolgersi al giudice per vedersi applicata la retribuzione prevista dal contratto nazionale di categoria. Ma per i metalmeccanici, quale contratto? Gli unici contratti esistenti sono quello ‘separato’ ovvero quello precedente. Il giudice, nell’integrare equitativamente avrebbe almeno due alternative: applicare il contratto ‘separato’; continuare ad applicare il vecchio contratto con la relativa indennità di vacanza contrattuale. Ma se formulassimo diversamente la domanda e ci chiedessimo non già quale contratto, bensì quale retribuzione, potrebbe avanzarsi anche una terza soluzione. Intendo dire che come, talvolta, qualche giudice (perfino di Cassazione) ha considerato legittima la determinazione della retribuzione in misura inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale (per svariate – e criticabili – ragioni), così il giudice potrebbe determinare la retribuzione dei metalmeccanici in questione in misura superiore a quella prevista dall’accordo ‘separato’ laddove ne ravvisasse l’opportunità attraverso, per esempio, una valutazione sull’andamento del settore. Così determinata, la retribuzione potrebbe risultare più conforme all’art. 36 Cost. rispetto a quella fissata dall’accordo ‘separato’, tanto più che l’incompletezza del fronte negoziale tradizionale incide sulla sua capacità rappresentativa e rende la retribuzione del contratto collettivo nazionale ‘separato’ meno adeguata ad implementare l’art. 36 Cost. rispetto a quella del contratto collettivo ‘non separato’.
Beninteso, non intendo dire che è la soluzione auspicabile. Tuttavia, sarebbe nel novero delle soluzioni tecnicamente possibili in conseguenza di un accordo sindacale sottoscritto da agenti negoziali dalla dubbia rappresentatività.
Ancora una osservazione. Le implicazioni giuridiche di questa vicenda sono notevoli e vanno anche al di là di quanto ho detto finora e si proiettano nell’immediato futuro. Infatti, soprattutto l’intreccio fra efficacia degli atti negoziali e rappresentatività dell’agente negoziale non si risolve soltanto negli aspetti tecnici già rilevati. Penso, in particolare, al rapporto fra sindacato e lavoratori e alla natura del mandato rappresentativo. La seconda osservazione mi viene sollecitata dal rimprovero che il prof. Accornero (sempre nell’intervista citata) ha mosso alla Fiom per aver politicizzato la vertenza distaccandosi, così, dal terreno esclusivamente salariale e aprendo un conflitto che riguarda tutto il sistema contrattuale e i complessivi assetti di relazioni industriali. E’ vero che tutta questa vicenda contrattuale possiede una forte valenza politica, più di altre. D’altronde, non mi nascondo che le osservazioni tecniche che ho appena formulato pagano lo scotto di essere riferite alla dinamica delle relazioni sindacali che, alla fine, è sempre una dinamica di rapporti di forza. Tuttavia, non saprei dove tracciare il confine fra una vertenza politica ed una vertenza economica soprattutto quando si tratta di salario: la politicizzazione è intrinseca, il salario è il ‘sale’ della contrattazione collettiva, investe il cuore del sistema.
In ogni caso, i termini della questione vanno oggettivamente al di là delle (poche, molte?) migliaia di lire in discussione. Il conflitto su questo rinnovo contrattuale si inserisce nel contesto generale del conflitto sulle due grandi questioni oggi sul tavolo: la prima, come ho detto, è la questione preliminare dell’agente negoziale: chi contratta. La seconda, riguarda la revisione del sistema contrattuale: come e cosa contrattare. E’ evidente che in conflitto c’è, da una parte, la tendenza a conservare il livello nazionale di categoria come il livello principale di contrattazione, all’occorrenza anche retributiva, dall’altra, la tendenza al decentramento negoziale, sia aziendale sia – soprattutto – territoriale. In questo scenario, ho la sensazione che almeno un dato sia già acquisito nei fatti: il superamento del protocollo del luglio 1993. I principi ‘costituzionali’ del sistema di relazioni industriali sono stati messi in discussione quasi irrevocabilmente: i due livelli di contrattazione; la centralità del livello nazionale di categoria; la generalizzazione del contratto collettivo che sia necessariamente espressione della maggioranza dei lavoratori. Se ciò fosse vero, mi sembra allora che questo conflitto metalmeccanico dica molto di più delle 23.000 lire in questione, investendo gli assetti contrattuali del sistema di relazioni industriali.