Cinquant’anni di storia sociale ed economica del nostro Paese e un protagonista: il Contratto nazionale dei metalmeccanici. Per essere precisi: il Contratto collettivo nazionale di lavoro (in sigla, CCNL) per gli addetti all’industria metalmeccanica e della installazione di impianti.
Se ne è parlato oggi al Cnel, o, per dir meglio, nel corso della presentazione di una ricerca, curata dallo stesso Cnel e da Federmeccanica. Ricerca intitolata Le relazioni industriali nell’industria metalmeccanica – Dalla prima alla quarta rivoluzione industriale.
A dirigere i lavori, Tiziano Treu, Presidente del Cnel. Nei locali di Villa Lubin, sede del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, o collegati da remoto, alcuni degli autori della ricerca – Lorenzo Bordogna, Mimmo Carrieri e Luciano Pero – e i protagonisti dell’ultimo rinnovo del Contratto, quello datato 5 febbraio 2021; ovvero, i dirigenti nazionali della stessa Federmeccanica e dei sindacati confederali della categoria: Fim, Fiom e Uilm.
Cinquant’anni di storia, abbiamo detto. E, infatti, come ha spiegato Lorenzo Bordogna, i Contratti nazionali oggetto della ricerca sono ben 16: quelli compresi fra il rinnovo del 1973, quello passato alla storia come il Contratto dell’inquadramento unico, e quello del 2016, innovativo soprattutto per ciò che riguarda la parte economica. E compresi anche i rinnovi biennali del periodo 1994-2009, ovvero del periodo in cui la contrattazione collettiva è stata regolata dal famoso Protocollo del luglio 1993.
In questi cinquanta anni, è stato rimarcato da diversi interventi, il Contratto dei metalmeccanici ha mantenuto una sua centralità nella vita sindacale e, più specificamente, nel sistema contrattuale italiano.
Centralità acquisita, aggiungiamo noi, nel cosiddetto autunno caldo del 1969, quello in cui, per la prima volta, un corteo nazionale di metalmeccanici, giunti nella Capitale un po’ da tutta Italia, percorse le strade silenziose e semideserte di una Roma attonita e preoccupata. Con quella manifestazione, che andò dalla Piramide di Caio Cestio a piazza del Popolo, le tute blu conquistarono l’attenzione mediatica dell’intero Paese. E, di lì a poco, ovvero nei primi giorni del gennaio 1970, conquistarono anche il Contratto della loro riscossa unitaria. Quel Contratto pieno di nuovi diritti che poi furono riversati nel cosiddetto Statuto dei diritti dei lavoratori. Ovvero nella legge 20 maggio 1970, n. 300, che li estese a tutte le altre categorie.
Centralità mantenuta, è stato spiegato oggi, per diversi motivi. Sociali, innanzitutto. Il peso della categoria, infatti, è rimasto invariato, in termini assoluti. Nel senso che da vari decenni a questa parte il totale delle lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici assomma a circa un milione e mezzo. E ciò resta importante perché fa dei metalmeccanici la prima categoria dell’industria per numero di addetti. Anche se, è stato osservato, il peso relativo della stessa categoria sul totale degli occupati è diminuito, a causa della crescita assoluta degli addetti ai servizi privati.
Ma ci sono anche motivi economici. Come ha sottolineato Luciano Pero, l’industria metalmeccanica porta sulle sue spalle, da sola, circa il 50% delle nostre esportazioni manifatturiere.
E ci sono, infine, motivi contrattuali. Legati alla relativa creatività della contrattazione metalmeccanica rispetto all’insieme dell’attività contrattuale che si svolge nel nostro Paese. Come ben si vede dall’esempio offerto dalla tematica dell’inquadramento professionale dei lavoratori. Perché qui si va dal già ricordato Contratto del 1973, quello che presentò la novità dell’inquadramento unico operai-impiegati, al recentissimo accordo del 5 febbraio scorso. Quello in cui, come ha rilevato Francesca Re David, Segretario generale della Fiom-Cgil, il concetto di “mansione” è stato sostituito dal concetto di “ruolo”.
Altro punto importante della storia contrattuale della categoria è quello del rapporto fra contratto nazionale e contrattazione aziendale o decentrata. Tema su cui si è soffermato, in particolare, Mimmo Carrieri, che ha tracciato la storia di questo complesso rapporto. Storia in cui ha avuto particolare importanza il Protocollo del luglio 1993, con l’istituzione del cosiddetto premio di risultato, ovvero di una parte aggiuntiva delle retribuzioni da contrattare in azienda sulla base di specifici indici di riferimento. Ma anche una storia in cui ha avuto particolare importanza il contratto del 2016, costruito in modo tale da stimolare la contrattazione decentrata, ad esempio per tutto ciò che riguarda il cosiddetto welfare integrativo.
Senza dimenticare – aggiungiamo noi – il fatto che la contrattazione aziendale non è stato solo un campo privilegiato di applicazione delle parti più aperte (o meno definite) dei contratti nazionali, ma anche luogo di sperimentazione di soluzioni innovative che sono poi state recepite – via, via – dai successivi contratti nazionali.
Vi sono dunque elementi di continuità, nella storia sindacale dei metalmeccanici. Ma anche di cambiamento.
Anche qui, innanzitutto, in senso sociale. Perché un tempo, nelle cronache sindacali, per designare i metalmeccanici si diceva: le tute blu. Ma oggi, a guardar bene, anche in questa categoria sono sempre più numerosi quelli che Wright Mills chiamava colletti bianchi. Negli anni 70, ha ricordato ancora Luciano Pero, nella categoria gli operai rappresentavano circa l’80% del totale, mentre tecnici e impiegati ne costituivano il 20%. Oggi, tecnici e impiegati sono passati in maggioranza, con circa il 52%, mentre agli operai resta il 48%.
Ancora: sempre Pero ha ricordato che negli anni 70 le fabbriche erano luoghi relativamente pericolosi, dove si verificavano numerosi infortuni. Oggi, fortunatamente, – o forse, aggiungiamo noi, proprio in grazia delle lotte sindacali degli anni 70 -, gli infortuni in fabbrica sono eventi più rari.
Infine, il cambiamento più rilevante, su cui hanno insistito, in particolare, i protagonisti della recentissima trattativa contrattuale, da Stefano Franchi, Direttore generale di Federmeccanica, a Roberto Benaglia, Segretario generale Fim-Cisl; da Rocco Palombella, segretario generale Uilm-Uil alla già citata Francesca Re David. Stiamo parlando del clima culturale che si respira nella contrattazione metalmeccanica. E che è figlio del clima culturale che si respira nelle aziende metalmeccaniche. Un clima sempre meno conflittuale e sempre più cooperativo, come ben si è visto in questa stessa trattativa.
Un cambiamento di clima a monte del quale, se non rischiamo di sembrare troppo deterministi, c’è probabilmente, tra i fattori determinanti, l’evoluzione tecnologica della fabbrica metalmeccanica. Un’evoluzione che rende il lavoro non meno intenso, né meno mentalmente faticoso, ma, in diverse postazioni, meno ripetitivo e più coinvolgente.
Un’evoluzione che, in ultima analisi, dà ragione alla scelta che è stata rivendicata, ancora, da Re David quando ha osservato che un merito storico delle organizzazioni di riferimento, sia sindacali che imprenditoriali, è stato quello di tenere nella stessa categoria tanti subsettori che, pur avendo una comune origine metallurgica, hanno finito poi per differenziarsi anche molto. Perché, a prima vista, tra un progettista di software e un addetto al montaggio finale di autovetture, come fra un siderurgico e un manutentore di ascensori, non ci sono molte cose in comune. Ma a ben vedere, ciò che li tiene insieme, appunto, è il contratto.
Un’ultima notazione. La ricerca che è stata presentata oggi è frutto del lavoro di diversi autori, fra cui parecchi qui non ricordati. Ancora, è una ricerca, a dir poco, voluminosa. Torneremo a parlarne.
@Fernando_Liuzzi