Le notizie sono due. La prima è che, a partire dalla fine di giugno, le retribuzioni mensili delle lavoratrici e dei lavoratori attivi nell’industria metalmeccanica cresceranno, in media, di qualcosa di più di 120 euro (per essere precisi, dovrebbe trattarsi di 123,40 euro). La seconda è che il contratto dei metalmeccanici funziona.
Cominciamo dalla prima notizia. Mercoledì 7 giugno l’Istat ha emesso un comunicato stampa con cui ha reso nota “l’inflazione misurata dall’indice Ipca al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati” per gli anni 2019-2022, nonché “la previsione dell’indicatore per gli anni 2023-2026”.
Nella stessa giornata, con tre distinti comunicati, i segretari generali dei tre maggiori sindacati della categoria, e cioè Roberto Benaglia (Fim-Cisl), Michele De Palma (Fiom-Cgil) e Rocco Palombella (Uilm-Uil), hanno fatto sapere che, in base a quanto reso noto dall’Istat, a fine mese l’aumento medio lordo delle retribuzioni dei metalmeccanici dovrebbe essere appunto pari a 6,6 punti percentuali, e quindi a 96,4 euro in più rispetto ai 27 euro pattuiti col rinnovo del febbraio 2021.
Per capire di che cosa stiamo parlando, sarà forse il caso di ricordare, innanzitutto, che cos’è l’Ipca: è l’Indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione europea. Un indice che ha trovato ufficialmente cittadinanza nel mondo sindacale italiano almeno fin dai tempi del Patto della fabbrica (punto 5, lettera H), il documento sulle relazioni industriali e la contrattazione collettiva che fu firmato da Confindustria e Cgil, Cisl, Uil il 9 marzo del 2018.
Già prima, però, l’acronimo Ipca era entrato nel panorama del mondo metalmeccanico. Ciò accadde nel novembre del 2016, quando fu firmato un importante contratto nazionale della maggiore categoria della nostra industria manifatturiera. È in quel contratto, infatti, che fu introdotta, fra le altre, questa rilevante innovazione.
Nel ribadire che il sistema contrattuale in essere nella categoria andava considerato come un sistema basato su due livelli, quello nazionale e quello aziendale o di zona, veniva differenziata la funzione dei due livelli per ciò che riguarda gli aumenti del salario nominale. Al contratto nazionale veniva assegnata la funzione di proteggere il potere d’acquisto delle retribuzioni dall’inflazione, mentre alla contrattazione di secondo livello veniva assegnata quella di accrescere il valore assoluto delle stesse retribuzioni, anche ricorrendo all’utilizzo di specifici strumenti volti a costruire il cosiddetto welfare aziendale.
In quest’ambito, veniva confermata la prassi di suddividere gli aumenti del salario nominale pattuiti in sede di rinnovo del contratto nazionale in più tranches successive, distribuite lungo il periodo di vigenza del nuovo contratto, ma cambiavano sia la cadenza di tali tranches, sia la logica con cui i suddetti aumenti venivano determinati.
Innanzitutto, il contratto non avrebbe più avuto una durata quadriennale, ma triennale. In secondo luogo, gli aumenti erogati con cadenza annuale non sarebbero più derivati da un accordo che fissava ex ante un ammontare complessivo di tali aumenti allo scopo di far crescere il potere d’acquisto delle retribuzioni. Si sarebbe trattato, invece, di aumenti basati sulle previsioni di crescita dell’inflazione realizzate dall’Istat utilizzando l’indice Ipca. In altre parole, di aumenti del salario nominale volti a recuperare ex post, anno dopo anno, la perdita di potere d’acquisto derivante dall’inflazione prevista e prevedibile al momento del rinnovo.
Non è stato però possibile sperimentare appieno la validità di questo schema in condizioni di normalità: l’esplosione della pandemia da Covid-19, ha fatto sì che le parti nel corso del 2020, ovvero nel corso di quello che avrebbe dovuto essere l’anno del rinnovo del contratto, si concentrassero su altri problemi. E cioè, principalmente, sulla fissazione delle regole che consentissero di mantenere aperti i luoghi di lavoro senza che la salute di lavoratrici e lavoratori venisse messa a rischio. Obiettivo raggiunto col protocollo del 24 aprile 2020.
Quando poi, il 5 febbraio del 2021, è stato definito il successivo accordo contrattuale, è stata introdotta nel testo dell’accordo un’altra importante novità: la cosiddetta clausola di salvaguardia. Una clausola in base alla quale – qualora l’inflazione reale dell’anno precedente, misurata dall’Istat in base all’indice Ipca ai primi di giugno di ogni anno, risultasse superiore a quanto previsto in sede di rinnovo contrattuale – “i minimi tabellari” sarebbero stati “adeguati all’importo risultante”.
Ad essere onesti, al momento della firma di questa intesa, e cioè, appunto, nel febbraio del 2021, non molti si aspettavano che questa nuova clausola avrebbe avuto modo di risultare come particolarmente significativa. I gravi effetti negativi determinati, sulle attività produttive, dai lockdown conseguenti alla pandemia, avevano già cominciato a rendere quasi introvabili componenti decisive per diversi settori industriali, mentre i noli marittimi, che sono destinati a influire sui prezzi delle merci più diverse, erano in procinto di intraprendere una repentina ascesa. E tuttavia, il peggio doveva ancora venire. Laddove con “il peggio” ci riferiamo all’invasione dell’Ucraina; invasione che sarebbe stata lanciata dalla Russia di Putin solo un anno dopo e cui, nel febbraio del 2021, nessuno pensava neppure lontanamente.
Va poi ricordato che l’Ipca viene utilizzato per misurare l’inflazione al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati e che, nell’inflazione conseguente alla citata invasione dell’Ucraina, beni come gas e petrolio hanno avuto un ruolo particolarmente significativo.
Sia come sia, la notizia che si è formata il 7 giugno, e che dovrebbe trovare una conferma definitiva entro lunedì 12, mostra che l’attuale assetto del Contratto dei metalmeccanici funziona. Infatti, l’intesa di rinnovo contrattuale firmata il 5 febbraio 2021 prevedeva che, a fine vigenza, e cioè entro il 30 giugno 2024, il valore nominale del salario mensile lordo di un metalmeccanico inquadrato al livello C 3 crescesse, in totale, di 112 euro. Una crescita, questa, articolata su quattro tranches: 25 euro a partire dal 1° giugno dello stesso 2021; altri 25 euro dal 1° giugno 2022; poi 27 euro dal 1° giugno 2023; e, infine, 35 euro dal 1° giugno 2024.
Come si è visto, a recupero dell’inflazione dispiegatasi lungo i 12 mesi del 2022, i metalmeccanici dovrebbero ricevere, a fine giugno, un aumento medio lordo pari a 123,4 euro, ovvero, da una parte, a 96,4 euro in più rispetto all’aumento previsto di 27 euro, e, dall’altra, a un aumento annuale superiore, da solo, ai 112 euro previsti per l’intero periodo della vigenza contrattuale.
Insomma, senza conflitti sociali e senza allarmanti rincorse tra prezzi e salari, un meccanismo ragionevole, quello introdotto col contratto del 2021, ha mostrato, sin qui, di essere anche abbastanza efficiente. Efficiente, vogliamo dire, sia quanto a tempismo, sia quanto a recupero, certo parziale, del potere d’acquisto eroso dall’inflazione. Un recupero che, sia detto per inciso, andrà a impattare direttamente sui redditi mensili di più di un milione di persone fra lavoratrici e lavoratori.
@Fernando_Liuzzi