Le buone notizie, si sa, hanno meno spazio delle cattive notizie. Forse anche per questo, il rinnovo del contratto dei metalmeccanici – definito nella serata di venerdì 5 febbraio da Fim, Fiom e Uilm con Federmeccanica e Assistal – ha fatto fatica ad aprirsi una strada che lo rendesse visibile nei notiziari del mattino e sui quotidiani di sabato 6 febbraio. Raggiungendo l’onore di un titolo in prima pagina, anche se non del titolo principale, forse solo sul Sole 24 Ore, il quotidiano della Confindustria, e sul Manifesto. E ciò mentre l’attenzione dei mass media era concentrata in parte sulle tribolazioni delle forze politiche, successive all’incarico di formare un nuovo Governo conferito a Mario Draghi; e in parte sulle ultime novità relative al coronavirus, polemiche sui vaccini comprese.
Perché parliamo di buona notizia? Prima ancora che per i suoi contenuti, per il fatto in sé, ovvero per il fatto che, anche se con tempi comprensibilmente allungati, una trattativa contrattuale, relativa a migliaia di imprese e a più di un milione e mezzo di lavoratori, è riuscita ad andare in porto superando le tempeste della pandemia da Covid-19. Il precedente contratto, quello siglato nel novembre del 2016, era infatti scaduto alla fine del 2019. Per rinnovarlo, c’è voluto dunque più di un anno, visto che le trattative per il nuovo contratto si erano aperte poco prima della scadenza di quello vecchio, e cioè il 5 novembre dello stesso 2019.
Cominciamo dunque la nostra analisi da questo tema: contratto e pandemia. Quale rapporto tra i due versanti del binomio? In prima battuta, si può dire che l’avvento della pandemia ha ostacolato il naturale sviluppo della trattativa contrattuale. Innanzitutto, perché ha dato molto filo da torcere sia agli imprenditori che ai lavoratori, occupando le menti e le vite quotidiane dei soggetti sociali che sindacati e associazioni imprenditoriali si propongono di rappresentare. Ma poi anche perché, già nella primavera del 2020, imprese e sindacati si sono trovati di fronte alla necessità di affrontare e di risolvere problemi ben più urgenti del rinnovo contrattuale, a partire da quello di tenere aperte le fabbriche, salvaguardando la salute delle tute blu, e di sostituire, ove possibile, il lavoro in ufficio dei colletti bianchi con il loro lavoro da remoto.
A ciò va aggiunto che i vari e successivi lockdown, da un lato, hanno reso più difficile l’organizzazione delle singole sessioni di trattativa, mentre, dall’altro, hanno praticamente cancellato il palcoscenico dello scontro sociale: quelle vie e quelle piazze che ospitano i cortei di lavoratori in sciopero, abituale contrappunto delle trattative sindacali più impegnative.
Senza le notizie “cattive” – scioperi, picchetti e cortei intesi come manifestazioni dello scontro sociale -, il negoziato ha finito per inoltrarsi in un percorso carsico, nel senso di un percorso non oggettivamente invisibile, ma comunque non osservato dagli organi di informazione. Un percorso che solo una volta è emerso alla luce del sole, e cioè quando, il 5 novembre 2020, si è svolto l’unico sciopero di questa vertenza, proclamato unitariamente da Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil.
Fatta questa critica dei mezzi di informazione (che vale anche come mia personale autocritica), c’è da dire che, almeno agli occhi di un osservatore esterno, appare sostenibile l’idea che la pandemia, da un lato, abbia sì ostacolato il naturale percorso della trattativa, ma, dall’altro, abbia anche contribuito alla creazione di un ambiente “culturale” in cui l’incontro fra le opposte esigenze delle parti contrattuali è stato forse più facile.
Ci riferiamo all’accordo del 24 aprile 2020, ovvero al protocollo che ha consentito di evitare il lockdown delle imprese metalmeccaniche, disciplinando il distanziamento interpersonale e la fornitura di strumenti di prevenzione, dai guanti alle mascherine, e stabilendo le altre misure che permettessero ai lavoratori di operare all’interno di officine, capannoni e cantieri senza mettere a repentaglio né la salute propria, né quella dei propri familiari.
Successivamente alla stesura di tale accordo, infatti, in molte aziende sono stati creati quei Comitati “per l’applicazione delle misure di prevenzione anti Covid 19” che erano previsti dall’art. 13 dell’accordo stesso. Comitati in cui hanno agito, fianco a fianco, i rappresentanti delle singole aziende e dei lavoratori in esse occupati; e ciò, in alcuni casi, anche in collaborazione con figure “esterne” alla dialettica sindacale, come il cosiddetto “medico competente”.
Quel che vogliamo dire è che – più o meno paradossalmente – l’esperienza della lotta condotta insieme contro la pandemia da Covid 19, esperienza inserita nel contesto drammatico in cui tutti abbiamo vissuto da un anno a questa parte, ha forse contribuito ad avvicinare le parti sociali che, tradizionalmente, si confrontano all’interno del mondo dell’industria metalmeccanica. E ciò, anche se con diversa intensità emotiva, dai vertici dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali sino alla base radicata nei luoghi di lavoro.
Sia come sia, va detto che le 60 pagine dell’Ipotesi di accordo del 5 febbraio – ricche di tabelle, allegati e specchietti – appaiono ispirate da una filosofia di reciproco riconoscimento fra le parti che sembrano percepirsi non come due armate contrapposte che hanno raggiunto un qualche armistizio, ma come due gruppi sociali che, pur rimanendo distinti, intendono cooperare al fine di perseguire un interesse comune. O, per dir meglio, al fine di perseguire una pluralità di interessi che sono anche diversi, ma sono inestricabilmente intrecciati fra loro. Tal che ognuno dei due gruppi, per perseguire i propri interessi, ha bisogno dell’altro e viceversa.
Per fare un esempio, le imprese, per misurarsi con le sfide della competizione in una fase storica segnata dall’incalzante innovazione digitale, hanno bisogno di una manodopera formata allo scopo di utilizzare le nuove tecnologie, mentre i lavoratori, per acquisire una maggiore occupabilità o per mantenere quella già acquisita, hanno bisogno di incrementare la propria formazione professionale in modo continuativo. Ed è a questo tema, infatti, che sono dedicate alcune pagine dell’accordo.
Lo stesso si dica per il rapporto fra scuola e lavoro; per la difesa di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; per il contrasto alle violenze di genere e alle molestie nei luoghi di lavoro; e, ultimo ma non meno importante, per lo sviluppo del già consolidato sistema di relazioni sindacali.
Chiarito il contesto, non apparirà strano che uno dei temi principali dell’accordo contrattuale di cui stiamo parlando sia quello della classificazione professionale.
Per capire l’importanza di quanto è stato pattuito in questo accordo, occorre fare non uno ma parecchi passi indietro. Bisogna cioè risalire fino al contratto del 1973. Se il contratto del gennaio 1970, quello immediatamente successivo all’autunno caldo del 1969, è il più importante della storia contrattuale dei metalmeccanici, perché sancì diritti che furono poi generalizzati, dopo solo pochi mesi, dal cosiddetto Statuto dei diritti dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), al secondo posto per importanza storica si classifica sicuramente quello del 1973. Quest’ultimo contratto, infatti, portando avanti la rivoluzione sociale e sindacale avviata con le lotte del biennio 1968-69, istituì il cosiddetto “inquadramento unico”, ovvero un sistema di classificazione professionale teso a superare la tradizionale distinzione, e quindi anche divisione, per non dire contrapposizione, fra operai e impiegati. Ciò, appunto, grazie a uno schema, basato su 7 livelli, le cui retribuzioni corrispettive salivano dalla prima categoria, la più bassa, alla settima, la più alta.
A queste 7 categorie venivano affiancate le cosiddette “declaratorie”, ovvero le descrizioni delle varie mansioni, per non dire dei diversi mestieri, su cui si articolavano allora le attività produttive nelle officine come negli uffici delle aziende metalmeccaniche.
Ebbene, mentre l’inquadramento propriamente detto ha subìto qualche modifica nei 48 anni che ci separano dal contratto del ‘73, tanto che le 7 categorie iniziali si sono via, via trasformate in 10 livelli (dal primo all’ottavo, con due categorie intermedie poste una fra 3° e 4° livello, e un’altra fra 5° e 6°), ciò che è rimasto incredibilmente fermo per un periodo così lungo è l’insieme delle declaratorie.
Ecco dunque l’importanza “storica” dell’accordo del 5 febbraio scorso. In primo luogo, in base a questa intesa, le declaratorie professionali saranno completamente riviste. Si tenga presente, infatti, che nell’industria manifatturiera non solo 48 anni, ma questi 48 anni, costituiscono un periodo molto lungo. Alcuni mestieri, fra quelli classificati nel 1973, sono addirittura scomparsi. Altri si sono modificati, in maniera più o meno decisiva. Ma, soprattutto, alcuni sono nati ex novo. Basti pensare, da un lato, che i primi computer hanno fatto il loro ingresso nelle aziende metalmeccaniche non prima di una decina d’anni dopo la stesura delle famose declaratorie. Mentre, d’altro lato, la digitalizzazione sempre più spinta dei processi produttivi ha cancellato, in misura crescente, almeno parte delle distinzioni fra lavoro manuale e lavoro non manuale. Andando quindi ben oltre quanto poteva immaginare chi, come Bruno Trentin, allora segretario generale della Fiom, concepì e volle l’inquadramento unico operai-impiegati.
Ora è del tutto chiaro che sia le imprese che i sindacati metalmeccanici non potevano proporsi di affrontare la strada della transizione digitale, indicata dalla stessa Unione Europea all’intera industria manifatturiera assieme a quella della transizione “verde”, portandosi dietro l’ingombro di uno strumento obsoleto di classificazione del personale quale quello costituito dalla somma delle vecchie declaratorie. Su questo punto, semmai, c’è da stupirsi che questa radicale innovazione contrattuale non sia stata realizzata prima.
Va però anche detto che la rivoluzione delle declaratorie è solo un aspetto, certamente vistoso, di un più complessivo processo di rinnovamento contrattuale. Con l’accordo del 5 febbraio, infatti, vengono effettuate altre due modifiche in tema di classificazione professionale. In particolare, si tratta di due modifiche relative ai livelli di inquadramento.
In primo luogo, le 10 categorie precedentemente esistenti vengono ridotte a 9. Ciò avverrà grazie al totale svuotamento dell’attuale prima categoria, la più bassa. Tutti i lavoratori in essa inquadrati saranno quindi trasferiti nell’attuale seconda categoria, con un innalzamento automatico della loro retribuzione minima. Ad ogni categoria corrisponde infatti un livello retributivo minimo (i famosi “minimi sindacali”). In pratica, l’attuale seconda categoria diverrà la prima dal basso dei futuri 9 livelli.
In secondo luogo, questi 9 livelli saranno distribuiti in 4 “campi professionali”. Andando dal basso verso l’alto, i due primi nuovi livelli, D1 e D2, costituiranno il campo dei “ruoli operativi”. I 3 successivi livelli – C1, C2 e C3 – costituiranno, invece, il campo dei “ruoli tecnico specifici”. Continuando a salire, arriviamo ad altri tre livelli – rispettivamente B1, B2 e B3 -, quelli dei “ruoli specialistici e gestionali”. Infine, un solo livello, il nono dal basso, ovvero quello denominato A1, costituirà il campo dei cosiddetti “ruoli di gestione del cambiamento e innovazione”.
Di fronte alle novità, c’è sempre il rischio di farsi prendere dall’entusiasmo, oppure dalla nostalgia per le cose superate e perdute. Forse sono vittima del primo di questi due pericoli, ma debbo confessare che – stando almeno alle parole – la mia impressione è che ci si trovi di fronte al consapevole tentativo di superare definitivamente la fabbrica fordista, con annesso taylorismo, ovvero uno schema che puntava alla subordinazione coatta del lavoratore dipendente, imprigionato nel gesto semplificato e ripetitivo. Facendo propria, semmai, la lezione del toyotismo, con il suo appello alla ricerca del “miglioramento continuo”.
Ci si trova quindi anche, e contemporaneamente, al tentativo di normare, e perciò di stimolare e sviluppare, uno schema basato sulla partecipazione consapevole e non solo intelligente, ma anche sempre più autonoma, del lavoratore allo sforzo produttivo. Uno sforzo produttivo, si aggiunga, sempre più digitalizzato.
Questa, per adesso, è certamente solo un’impressione; un’impressione che, altrettanto certamente, andrà poi verificata nei luoghi di lavoro, via, via che l’applicazione del nuovo contratto accompagnerà, come dovrebbe accompagnare, le fasi innovative in corso.
E veniamo adesso all’elemento che è stato al centro della (purtroppo scarsa) informazione fornita dal nostro sistema mediatico sul rinnovo contrattuale dei metalmeccanici: gli aumenti salariali.
Il contratto precedente, quello stipulato il 26 novembre 2016, scadeva al 31 dicembre 2019. In base all’accordo del 5 febbraio scorso, le parti considerano il 2020, anno in cui tale contratto non è stato rinnovato, come un periodo in cui il contratto stesso “ha operato in regime di ultrattività”. Il che, in parole povere, vuol dire che, ai salari precedentemente erogati, si è aggiunta una quota mensile di 12 euro, determinata in base all’Ipca, l’Indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea, oltre a 200 euro annui di flexible benefits.
In secondo luogo, la durata del nuovo contratto sarà estesa di 6 mesi. Varrà quindi fino al 30 giugno 2024. Fino a quella data, si avranno aumenti salariali suddivisi in 4 tranches. Considerando come medio il 5° livello della nuova scala parametrale, ovvero il livello C3, tali aumenti saranno pari a 25 euro dal 1° giugno 2021; ad ulteriori 25 euro dal 1° giugno 2022; a 27 euro, dal 1° giugno 2023; e, infine, a 35 euro dal 1° giugno 2024. In sostanza, a regime, ovvero nell’ultimo mese di vigenza del contratto, la paga base per un lavoratore inquadrato al livello C3 risulterà accresciuta di 112 euro rispetto a quella del maggio 2021. Invece, per un lavoratore attualmente inquadrato al vecchio primo livello, la paga base crescerà, di qui al giugno 2024, di quasi 230 euro (di cui 138 euro per il salto dal vecchio al nuovo primo livello, più 90 euro e rotti di aumenti relativi al nuovo primo livello). Infine, va sottolineato che questi aumenti salariali andranno ad appoggiarsi sugli attuali minimi e quindi, andando a costituire i nuovi minimi tabellari, avranno poi effetto su tutti gli altri istituti retributivi, a partire dal conteggio degli eventuali straordinari.
Va poi anche detto che l’accordo contiene una sorta di clausola di salvaguardia in base a cui, qualora l’inflazione reale misurata dall’Ipca risultasse superiore alle cifre pattuite, “i minimi tabellari saranno adeguati all’importo risultante” da tale conteggio. Ma questa, a tutt’oggi, appare come un’ipotesi altamente improbabile.
Piuttosto, vale la pena di spendere ancora qualche parola per tentare di chiarire la logica in base alla quale le parti hanno definito gli aspetti salariali dell’accordo. Come si ricorderà, il contratto del novembre 2016, quello del cosiddetto “rinnovamento” contrattuale, aveva identificato come criterio per definire gli aumenti del salario nominale una sorta di calcolo ex post, basato appunto sui valori via, via raggiunti dall’Ipca. Ci si potrebbe allora chiedere come sia stato possibile, in questo accordo, definire degli aumenti comunque superiori a quanto determinato dalla sola dinamica ipotizzabile dell’Ipca. La risposta a questa domanda è contenuta nell’accordo: “Le parti, nel confermare la modalità di definizione dei minimi contrattuali stabilita”, nonché “il relativo regime”, “convengono che per la vigenza del presente contratto il Tem (trattamento economico minimo – ndr), oltre che per la dinamica Ipca, è incrementato da una ulteriore componente in considerazione della rilevante innovazione organizzativa determinata dalla riforma dell’inquadramento, come indicato dal Patto per la fabbrica, punto 5, lettera H).
Morale della favola. Insieme all’operazione di “riforma dell’inquadramento”, le parti hanno definito aumenti salariali più consistenti (si veda la “ulteriore componente”) di quelli che sarebbero stati determinati dalla pura dinamica dell’Ipca. E ciò senza entrare in rotta di collisione con le regole derivanti dal Patto per la fabbrica.
Allo stesso tempo, le parti hanno definito un contratto improntato a una logica partecipativa, non conflittuale, secondo quanto auspicato nel 2016 con la proclamazione della teoria del “rinnovamento” del contratto.
La speranza, a questo punto, è che questo rinnovo possa contribuire a creare le condizioni più adatte per consentire all’industria metalmeccanica italiana, e ai suoi capaci lavoratori, di trarre il massimo vantaggio dall’opera di ripresa post crisi pandemica che potrà essere innescata grazie agli strumenti apprestati dall’Unione europea, a partire dal Next Generation EU.
@Fernando_Liuzzi