Qualche settimana fa, a Washington, ho partecipato a un gruppo di lavoro sulla Politica economica organizzato dal sindacato americano (Afl-Cio) per la Confederazione sindacale internazionale (Ituc) e il sindacato dell’Ocse (Tuac). In quella sede erano presenti i rappresentanti dei sindacati di tutte le principali economie industrializzate (compresa la Cina) e di molte delle economie emergenti (soprattutto latino-americane e africane). Per l’Italia la presenza è stata unitaria (Cgil, Cisl e Uil).
Il programma prevedeva un confronto anche con rappresentanti dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico e del Fondo Monetario Internazionale. A partire dall’analisi del contesto globale, passando per i confronti internazionali, le previsioni macroeconomiche presentate dai diversi protagonisti hanno lasciato poco margine per scenari ottimistici, specialmente nel lungo periodo.
È stata sottolineata più volte la fragilità dell’economia europea – compresi gli effetti moltiplicativi negativi dell’austerità e di una politica di svalutazione competitiva – e la conseguente responsabilità degli squilibri macroeconomici globali. Le istituzioni internazionali sono tornate a parlare di rischio di “stagnazione secolare” e della fragilità della ripresa negli Usa legata alla debolezza della domanda interna. Da qui, la vera novità del workshop: dopo le presentazioni dell’Ocse (Stefano Scarpetta, “Disuguaglianza nella distribuzione del reddito e nel mercato del lavoro) e del Fmi (Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron, Disuguaglianza nelle istituzioni del mercato del lavoro), la discussione si è svolta tutta attorno al nesso tra crescita, disuguaglianze e sindacalizzazione. Un confronto in termini di politica economica.
Un dibattito piuttosto inedito in termini istituzionali – pur in sede sindacale – a cui ha offerto un contributo anche il Capo economista del Presidente Obama, Jason Furman, sostenendo la necessità di rafforzare la membership sindacale e il dialogo sociale per ridurre le disuguaglianze nella distribuzione primaria del reddito e all’interno del mondo del lavoro, al fine di aumentare la domanda effettiva e rafforzare l’economia nazionale. Di fatti, grazie a una politica di bilancio espansiva e a una politica monetaria non convenzionale, il governo Usa ha riportato il tasso di disoccupazione a livello pre-crisi (5%), ma i lavori sono più precari e i salari sono molto più bassi. Per questo, secondo Furman, occorre irrobustire la legislazione del lavoro e la contrattazione collettiva. La California ha già aumentato del 50% il livello del salario minimo orario.
In Italia, invece, oltre alla totale avversione per il dialogo sociale, il Governo continua a tracciare un quadro macroeconomico programmatico per il triennio in corso (vedi Documento di Economia e Finanza) in cui, da un lato, il tasso di disoccupazione resta attorno sopra il 10%, e dall’altro, i salari reali diminuiscono.