“Ristrutturare” il debito è un termine un po’ da bancari: vuol dire che il debitore, invece di restituire il totale del prestito nei tempi previsti, ne restituirà solo una parte e in tempi più lunghi. E, dunque, uno Stato della zona euro può trovarsi nelle condizioni di ristrutturare il suo debito? Sì. È già avvenuto nel marzo 2012, quando la Grecia annunciò che avrebbe restituito solo il 50 per cento ai detentori dei titoli del suo debito pubblico, allungando le scadenze. E tocca ai creditori, alla fine, votare a maggioranza se accettare i termini di questa ristrutturazione? Sì. Dal 2013, tutti i titoli pubblici emessi nell’eurozona prevedono, con un’apposita clausola contenuta nel contratto (si chiamano Cac, clausole di azione collettiva) questa procedura. Poiché, tranne uno sparuto gruppetto di titoli trentennali, quasi tutti i titoli emessi nell’eurozona sono al massimo decennali, ne consegue che, entro il 2023, non circolerà più in Europa alcun titolo che non contenga questa clausola. Ma, se è uno Stato è in difficoltà, Bruxelles interviene in aiuto, mettendo, però, sotto tutela la sua politica economica e inviando dei commissari che impongono tagli e riforme? Sì. Ricordate la Troika? Sono i commissari spediti, nel 2011, al culmine della crisi dell’euro a controllare e gestire la politica economica in Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda.
E allora, se l’ipotesi di una ristrutturazione del debito era già sul tavolo, se la procedura era già stabilita, se il commissariamento della politica economica era già la precondizione indispensabile di un salvataggio, cosa è tutto questo chiasso, della Lega e dei 5Stelle, sulla riforma del Mes, ovvero il meccanismo di intervento europeo, meglio noto come Fondo salva-Stati? La riforma, che prevede una lunga fase pubblica di vaglio e ratifica delle modifiche dei trattati comunitari, da parte dei 19 parlamenti nazionali dell’eurozona, non contiene, infatti, novità significative sui salvataggi. C’è una novità importante, che, però, riguarda tutt’altra materia e un’altra più limitata e squisitamente tecnica. Il resto, ovvero se e come l’Europa interviene a salvare un paese membro dell’eurozona, resta uguale a prima, partendo dal principio che nessuno è disposto a pagare, a occhi chiusi, i debiti degli altri.
La novità importante riguarda i salvataggi delle banche. L’Europa potrà intervenire, a fianco delle autorità nazionali, con un proprio fondo di oltre mezzo miliardo di euro, alimentato da tutte le maggiori banche europee, garantendo una rete di sicurezza. La novità tecnica riguarda le clausole di azione collettiva, e sveltisce le operazioni di voto sulle ristrutturazioni.
Certo, evocare le ristrutturazioni è sempre delicato, in un mondo di mercati pronti a fibrillare ad ogni alito di vento. Tuttavia, questo è un momento di relativa calma (lo spread italiano rispetto ai titoli tedeschi si è dimezzato rispetto ad un anno fa) e fantasmi di ristrutturazioni all’orizzonte è francamente difficile vederne. Quello che il nuovo trattato fa è chiarire che gli interventi di salvataggio non possono essere a fondo perduto. I soldi in aiuto arrivano se governo interessato e Troika sono in grado di mettere insieme un piano di interventi che garantisce risparmi e maggiori entrate, sufficienti a pagare rate e interessi del debito pericolante. Se questo flusso non si materializza, il debito, così com’è, non è sostenibile. E parte la ristrutturazione.
L’esperienza storica dice che l’annuncio di un intervento europeo è già sufficiente a riportare il debito sulla strada della sostenibilità. In linea di principio, d’altra parte, l’ipotesi di una ristrutturazione non può essere esclusa a priori, a meno di non prevedere che gli altri paesi paghino, comunque, i debiti contratti da un paese per finanziare spese che ha deciso autonomamente. È facile prevedere, in caso di crisi, trattative drammatiche, bracci di ferro disperati intorno all’ipotesi di una ristrutturazione del debito. A stabilire se quel debito è sostenibile o meno, ovvero se deve esserci una ristrutturazione, in ogni caso, sarà la Commissione e non i funzionari del Fondo salva-Stati. Una decisione, cioè non tecnica, ma politica.
Maurizio Ricci