di Sebastiano Fadda
Si ha la sensazione che qui in Italia non sia possibile leggere sui giornali o sentire nei mezzi di comunicazione di massa valutazioni sulle misure di politica economica che non siano espressione di un ”partito preso” (salvo il trasformare il “partito preso” in “partito abbandonato” a seconda delle convenienze) o moneta di scambio nel mercato sempre florido del sottogoverno. E’ triste venire a sapere che anche recenti nomine governative di grande rilievo siano maturate in un percorso di questo genere. In tal modo la credibilità di tutti i protagonisti appare compromessa, e sembra di assistere a una gabbia di matti furbissimi che detengono il potere e assumono un atteggiamento che ricorda quello di cui parla il poeta psicanalista R.Laing: “stanno giocando un gioco, e stanno anche giocando a non giocare un gioco. Se do loro ad intendere che io vedo che loro stanno giocando io rompo le regole del gioco e loro mi puniranno; quindi devo stare al loro gioco e fingere di non vedere che vedo il gioco”.
Siamo davvero in presenza di una trappola di bugie, di ipocrisie e di finzioni di questo genere? Se prendiamo, per esempio, il caso dei recenti decreti legislativi in materia di mercato del lavoro vediamo che siamo assediati da un lato da osannanti dichiarazioni di entusiasmo su una asserita “rivoluzione copernicana” e dall’altro da oscuri ammonimenti di “fregature crescenti”. Simili dichiarazioni estreme, oltre che da giornalisti e politici dai quali sarebbe arduo pretendere di più, provengono talvolta da studiosi i quali nella misura in cui rinunciano ad articolare e a fondare analiticamente i loro giudizi alimentano il sospetto di praticare il gioco di cui sopra. Se così non fosse, infatti, come si potrebbero spiegare affermazioni secondo cui modalità di tutela del lavoratore del genere di quelle previste dall’art.18 non esistano in altri paesi europei? Forse non esistono nello Zimbabwe, ma in Austria e in Germania, per esempio, sicuramente si. Come si potrebbe, se così non fosse, affermare che in presenza dell’art. 18 non sia possibile in Italia licenziare per motivi economici, quando il paese è pieno di persone che hanno perso il lavoro proprio per motivi economici? Come si potrebbe, in caso contrario, sostenere che il meccanismo cosiddetto delle “tutele crescenti” sia di per se limitatore della precarietà e del turnover dei lavoratori? Come si potrebbe, ancora, sostenere che con le misure del decreto legislativo “non esistono più scuse” per non investire in Italia o per delocalizzare la produzione? Come si potrebbe sostenere che queste misure siano “condizione necessaria” (ancorchè “non sufficiente”) per la ripresa economica?
Già! La ripresa economica, da diversi anni annunciata e mai arrivata. E’ comodo continuare ad annunciarla, perché prima o poi “arriverà”: anche un orologio fermo dice la verità almeno due volte al giorno. Tutti sanno che il processo di recessione non può essere infinito e che prima o poi, toccato il “floor”, si arresterà dando luogo al punto di svolta (anche se poi bisognerà verificare il “trend”); ma la questione è se le linee di politica economica adottate abbiano favorito o ritardato il momento della ripresa, e se la mancata adozione di misure diverse lo abbia allontanato o meno.
Francamente siamo stanchi dell’alluvione di affermazioni generiche formulate in assenza di adeguate analisi o fondate su dichiarazioni altrettanto generiche e calcolatamente strategiche di qualche imprenditore, o sindacalista, o perfino “autorevole studioso”. Vorremmo che ci si astenesse da affermazioni gratuite che allontanano la gente dal riflettere e documentarsi e forniscono invece slogans adatti a creare fanatismi da stadio piuttosto che valutazioni approfondite. Esse producono l’effetto di un ulteriore degrado della maturità civica e culturale dei cittadini. Vorremmo che invece rinascesse e si diffondesse anche nei mezzi di comunicazione di massa la capacità critica e l’impegno verso analisi e documentazioni approfondite.
E proprio perché l’agitarsi delle forze politiche e dei commentatori intorno a queste misure appare come il suono dell’orchestrina su un Titanic in grave pericolo, vorremmo fare un appello accorato perché le sane energie disponibili non partecipino più a questo gioco di finzioni, ma si mobilitino per analizzare e mettere a punto quelle svolte radicali nella politica economica che sono necessarie perché il livello di attività economica riprenda a crescere. Il fatto che il processo di recessione necessariamente incontri un limite non garantisce di per sé che si avvii una ripresa. Come l’esperienza del Giappone dimostra, un lungo periodo di stagnazione potrebbe essere in agguato. Per evitare questo occorre concepire ed implementare un insieme organico di misure di stimolo dell’economia reale. Pensiamo a quanto ci sia da approfondire, per esempio, per definire azioni rivitalizzanti in materia di mercato del lavoro: un giusto riequilibrio tra contrattazione nazionale e contrattazione decentrata, in modo che i livelli salariali, legati alle variabili microeconomiche della singola impresa, non restino indipendenti da fondamentali variabili macroeconomiche, come le quote distributive e la stabilità monetaria; un rafforzamento della funzione di stimolo della produttività attraverso un legame della dinamica salariale con una qualche forma di produttività programmata; l’abolizione di quei contratti che mascherano come “flessibilità” l’abbassamento dei “labour standards”, nocivo per i singoli lavoratori e per la performance macroeconomica; la costruzione di un clima di relazioni industriali improntato alla collaborazione e alla fiducia reciproca; una politica di aggressione della “disoccupazione tecnologica”, che costituirà la sfida del secolo; un sistema di accompagnamento al lavoro non “all size fit”, ma basato sulla conoscenza degli specifici processi economici del territorio e delle specifiche tendenze e politiche di sviluppo; una radicale riforma dei processi formativi fuori e dentro le imprese. Anche il campo delle politica industriale costituisce un terreno dove profonde e non cosmetiche misure sono necessarie; basti pensare alla necessità di elaborare un quadro organico strategico di medio lungo termine che sia di riferimento per le imprese e per gli interventi pubblici; alla necessità di investimenti pubblici che fungano da catalizzatori degli investimenti privati; alla necessità di sviluppare servizi alle imprese che includano le infrastrutture materiali e immateriali, il credito, le reti di ricerca, il sostegno all’internazionalizzazione; alla necessità di politiche per l’innovazione specialmente di prodotto; alla riforma delle istituzioni economiche per il rafforzamento della trasparenza e della concorrenza; alla riduzione del grado di monopolio e delle rendite parassitarie legate al sottogoverno e alla burocrazia. Un altro capitolo fondamentale è quello della ristrutturazione della politica fiscale in funzione anticiclica. Qui non basta certo la finta riduzione delle imposte esibita con riduzione di qualche voce neutralizzata nascostamente dall’aumento di altre voci, né la finta riduzione della spesa che taglia i servizi e lascia crescere il malaffare, le super retribuzioni, le super commissioni, le super partecipate, i super privilegi, gli enti inutili; né le misure di piccolo cabotaggio dei recenti decreti legislativi.
Come si vede, i campi concreti dove le energie intellettuali e politiche dovrebbero impegnarsi sono molti; si ha invece la sensazione che un anno di tempo sia stato sprecato in altre avventure, e non sorprende che cresca la quota di popolazione che, pur non possedendo strumenti analitici per una valutazione circostanziata, percepisce di essere vittima di questo gioco di bugie e ipocrisie cui sopra si è accennato, si sente gabbata e reagisce rifiutandosi di partecipare al “gioco” delle elezioni. La recente opaca vicenda dell’art 19 bis del decreto sul fisco rafforza questa percezione. Non è un modo saggio di reagire, ma è comprensibile. Ora che si avvicina il momento dell’elezione del nuovo Capo dello Stato e le forze politiche sono impegnate a far si che esso sia rappresentativo del più ampio arco possibile dei partiti ancor più vorremmo che esso fosse rappresentativo di questa stragrande maggioranza di cittadini che nelle ultime elezioni non è andata a votare.