“Uomo dell’anno”, ha titolato a tutta pagina il quotidiano Libero incorniciando una foto di Giorgia Meloni, allegra, un elegante doppiopetto bianco con i bottoni dorati, l’aria un po’ furbetta. Sulla copertina del settimanale Il venerdì, allegato a Repubblica, il tributo di “uomo dell’anno” va a Giacomo Matteotti, lo sguardo presago del terribile futuro, suo e dell’Italia. La fronte corrugata a serietà, gli occhi fermi e pensosi, le labbra atteggiate a tagliente ironia, scrutatore implacabile, incuteva timore e soggezione: così lo descrisse Piero Gobetti.
Giorgia Meloni e Giacomo Matteotti. Destini incrociati, in questo 2024. Li accomuna la lettera iniziale, la “g” del nome e la “m” del cognome, che è poi la stessa di Mussolini, antenato ideologico della presidente del consiglio, mandante morale e materiale dell’assassinio. E li accomuna l’incrocio di date. Il martire antifascista fu rapito dai suoi sicari, per impedire che dopo la denuncia delle violenze e dei brogli elettorali si scagliasse prove alla mano contro la corruzione in camicia nera, il 10 giugno di cent’anni fa. La ricorrenza arriva subito dopo le elezioni del Parlamento europeo che, stando ai sondaggi, dovrebbero segnare un trionfo per l’inquilina di Palazzo Chigi.
Che dirà, quel giorno? Potrebbe andare davanti al monumento che su Lungotevere Arnaldo da Brescia ricorda l’eroe del Polesine, sostare in rispettoso silenzio per qualche minuto e poi annunciare: “In memoria di quell’esecrando crimine che segnò il suggello del Ventennio, ho deciso di togliere la fiamma tricolore dal simbolo del mio partito”. Entrerebbe nella storia della democrazia. Ma non lo farà, è certo. “Il fascismo non si processa”, disse allora Mussolini.
Dopo il delitto, durante una riunione del Gran Consiglio, il Duce aveva ironizzato su “un ritorno a quei giochi e giochetti del tempo antico, che avevano suscitato lo sdegno generale” e su “una ricaduta nello stato democratico-liberale, con tutti gli annessi e connessi”. Minimizzando quanto stava avvenendo: “In fondo che cosa fanno le opposizioni? Fanno degli scioperi generali o parziali? Delle manifestazioni di piazza? O tentativi di rivolta armata? Niente di tutto ciò. Le opposizioni svolgono un’attività puramente di polemica giornalistica. Non possono far altro. Per evitare che anche la semplice polemica possa turbare gli animi con ripercussioni sull’ordine pubblico, non c’è bisogno di ondate sproporzionate allo scopo. Bastano i decreti sulla stampa. Non si può mobilitare un esercito per sfondare pochi fogli di carta i quali, poi, quando esagerano, ci giovano assai. Fra poco, il pubblico italiano o sarà saturato dei giornali oppositori e per variare cercherà i nostri, o sarà mitridatizzato. Così stando le cose, il fascismo può restare tranquillamente con le armi al piede”.
D’altro canto, lo stesso Benedetto Croce, prima di capire finalmente quale mostro avesse contribuito ad alimentare, desiderava che non si disperdessero “i benefici del fascismo” e che non si tornasse “alla fiacchezza e all’inconclusione che lo avevano preceduto”.
Il 3 gennaio 1925, sopita ogni protesta, Mussolini poteva così affermare, spavaldo e sprezzante, “Io dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che assumo io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto”. “L’Italia vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza, se è necessario”. Fu l’inizio della Dittatura.
La monarchia fu complice. La secessione decisa dalle opposizioni non aveva scalfito l’opportunismo, la paura, l’indifferenza, il cinismo che costituivano la base del Regime. La protesta morale dell’Aventino era stata seppellita ma con essa era stata seppellita l’Italia intera. Disse poi Filippo Turati: “Sta in un solo e stesso sepolcro, tutta una nazione”. E Anna Kuliscioff: “Si accusa il re, si accusano le opposizioni, si accusano i partiti e l’autorità giudiziaria perché non salvano il Paese dal disastro. Purtroppo, manca un coefficiente, quello essenziale. Ed è la mancanza del popolo, che non sente e non si commuove per ragioni idealistiche”.
Amerigo Dumini, il più noto degli assassini, dopo molte peripezie e solo qualche anno di galera, scrisse una pelosa autobiografia nella quale ripeteva che “Matteotti morì per un attacco di emottisi nel brevissimo tratto di strada compreso tra il luogo della cattura e piazza del Popolo”. Tornato libero, nei primi anni Cinquanta, aderì al Msi.
E allora, forse, gli epigoni di Almirante, che ora stanno al governo, invece di chiedere venia per le proprie origini, ricorderanno lui, il carnefice, e non la vittima. Il ministro Sangiuliano potrebbe proporre una fiction sulla sua vita avventurosa, in fondo dal sapore dannunziano. Non ci sarebbe da meravigliarsi.
Il popolo, mitridatizzato, tace e acconsente.
Marco Cianca