.Il sindacato dei bancari Fisac Cgil ha presentato un rapporto sui salari, intitolato “Poveri salari: tra diseguaglianze, crisi bancarie e contratti”. Il Diario del lavoro ha intervistato Agostino Megale, segretario generale Fisac Cgil, per approfondire i temi trattati nel rapporto
Megale, come è nata questa iniziativa?
Questo è l’ottavo rapporto sui salari in Italia, il primo l’abbiamo presentato nel 2002 quando ero presidente dell’Ires. Sono stati realizzati sei volumi, utilizzati sul piano scientifico anche dall’Istat. L’ultimo rapporto conferma il permanere di una questione salariale che in Italia è diventata ancora più strutturale e pesante e oserei dire che ha visto allargare ulteriormente la forbice delle diseguaglianze. Per questa ragione abbiamo sintetizzato nella presentazione guardando l’ultimo ventennio, esattamente dal 1993 ad oggi, cioè 24 anni.
Che cosa non ha funzionato?
Le tasse sul lavoro sono cresciute e progressivamente abbiamo individuato che dal 1985 al 2017 un lavoratore medio paga qualcosa come 235 euro di tasse sul lavoro in più. Il dato è mensile, quindi si immagini quanto si è mangiato il fisco nel corso degli ultimi 25 anni. A seguito dell’aumento della pressione fiscale sul lavoro è aumentata l’evasione fiscale e quindi siamo arrivati al punto di far pagare ai cittadini onesti la mancata tassazione di oltre 300 miliardi, cioè 105 miliardi di mancate entrate nelle casse dello Stato. In pratica la sostanza è questa: si sono rinnovati i contratti con i salari legati all’inflazione e il fisco ha mangiato sul salario netto, quindi le retribuzioni si sono ridotte e pure la produttività, che negli ultimi 17 anni non è cresciuta, a parte per quelle imprese del del quarto capitalismo industriale. E la redistribuzione della ricchezza è venuta meno.
Cosa ha comportato tutto questo sul mondo del lavoro?
Che siamo arrivati al punto che in Italia si lavora più ore rispetto agli altri paesi Ue; per esempio, lavoriamo 200 ore in più rispetto ai tedeschi. Il bello è che abbiamo redistribuito anche meno produttività, perché abbiamo un differenziale di circa 26 punti con la Germania. Non è un caso che, sempre in Germania, i salari siano cresciuti rispetto all’Italia, mediamente di 9.000 euro l’anno. Stesso discorso con la Francia, con salari superiori di 7.000 euro. E nel corso di questi anni siamo stati superati anche dalla Spagna.
Se si dovesse scegliere tra aumentare salari o produttività, quale delle due avrebbe la precedenza, nell’ottica di una ripresa economica?
Diciamo che l’alternativa non c’è o meglio non è collocabile nella situazione attuale. In ogni caso, in una situazione in cui il lavoro manca e contemporaneamente vi sono bassi salari, il primo obbiettivo da sempre è allargare la massa salariale complessiva. Assieme all’elemento redistributivo del lavoro, questi cambiamenti vanno sostenuti dagli investimenti, anche pubblici, con le banche che riaprano i rubinetti del credito. Come Fisac e come Cgil, dopo aver progettato il Piano del lavoro, noi abbiamo posto l’accento sul piano straordinario di lavoro per i giovani.
Cosa ha proposto nel piano?
L’esigenza di affrontare questo problema dei giovani non solo sul versante della decontribuzione temporanea, ma eventualmente da un lato di applicare una decontribuzione strutturale di 6 o 7 punti e dall’altra un piano di investimenti di 40-50 miliardi. Un diritto in meno e uno sgravio temporaneo di 2 o 3 anni non è la soluzione del problema. Detto questo, serve una grande battaglia sull’occupazione accompagnata dalla crescita dei salari.
Quindi prima occupazione e poi a seguire crescita dei salari?
Esattamente così. Occupazione nella sua crescita e nella sua solidarietà retributiva e questione salariale nella doppia funzione di produttività generale. Ci vuole un salto di qualità e in questo salto la priorità è l’occupazione e scossa salariale, attraverso anche una riforma fiscale mirata, premiando il lavoro attraverso l’aumento delle detrazione fiscali sul lavoro dipendente.
Una “scossa” già usata in passato…
Si, abbiamo avuto un solo periodo storico, il 1975, in cui a fronte di una inflazione crescente si pose l’esigenza di dare una impennata salariale. Ma immediatamente dopo, nel 1976, dall’indicazione di Luciano Lama, considerata la dinamica di inflazione oltre il 14-15% era necessario tornare a un contenimento salariale. Oggi il contesto inflazionistico è opposto. Dobbiamo per far ripartire l’inflazione e quindi serve far ripartire i salari. Non c’è una cosa prima e una dopo. Riparte l’inflazione se ripartono i salari. Riparte la crescita se ripartono i salari. Riparte l’occupazione se ripartono i salari.
Come si può risolvere il problema della produttività?
Si deve giungere ad accorpamenti di filiera verso contratti unici di filiera, che portano al massimo 40 o 50 contratti. Questi contratti devono avere diritti omogenei e universali, con riferimenti per i comparti, orari e inquadramenti e con forti rinvii a livello aziendale e di gruppo. Il problema della produttività non è risolvibile con la detassazione del salario di produttività sperimentato negli ultimi 14 anni, che certamente non si rifiuta. Ma bisognerà pur considerare che sono stati spesi circa 800 milioni l’anno, qualcosa come 13 miliardi in tutto in periodo, quasi come una finanziaria, ma nonostante ciò la produttività in Italia è comunque calata. Inoltre, bisogna uscire dalla logica il piccolo è bello, come la piccola impresa, perché nell’epoca globale si dimostra un handicap, la nostra produttività è piu bassa del 30% proprio nelle piccolissime imprese.
Ma la sfida per il sindacato allora sarebbe riuscire a entrare nelle piccole realtà aziendali
Appunto. Il sindacato dovrebbe entrare e svolgere la contrattazione territoriale diffusa. Insomma, ci sarebbe bisogno di una ventata di modernizzazione all’insegna di un ruolo del sindacato e delle parti sociali che richiama i tempi di patti per il lavoro e la crescita, come il patto Ciampi del ’93. Penso sia giusto sottolineare che la riforma dei contratti, pur senza puntare a modelli omogenei come era nel ’93, deve rimettere in pista le condizioni per operare un’uguaglianza ed evitare paradossi.
In che senso?
Prendiamo per esempio il welfare con la detassazione a livello aziendale: paradossalmente produce una opportunità per quei 3 milioni di lavoratori che lo utilizzano, ma produce una diseguaglianza per quei 15 milioni di lavoratori che non potranno mai averlo perché operano in piccolissime imprese.
La patrimoniale è stato un cavallo di battaglia per tanto tempo in Cgil ma ultimamente sembra uscita dal dibattito. Ci sono altre priorità o è stata accantonata l’idea di tassare i più ricchi?
Quell’operazione è ancora attuale però si, se ne parla meno. Nel 2009 , proprio nel bel mezzo della crisi, la Cgil lancio’ una ipotesi di patrimoniale sul modello francese: una tassa sulle grandi ricchezze che doveva essere in grado di colpire soprattutto chi aveva effettivamente le grandi ricchezze, non di creare i problemi tra i cittadini comuni. Inoltre, doveva essere in grado, come è stato riconfermato proprio due anni fa nella predisposizione della piattaforma sul Fisco, di pagare una operazione di riforma fiscale sul lavoro dipendente che non costava meno di 18-20 miliardi.
La politica ha fatto orecchie da mercante?
Il fatto è che non bisognerebbe avere imbarazzi ad affrontare il problema sulla tassazione delle grandi ricchezze. Il coraggio del cambiamento si misura quando sei capace di affrontare problemi, come quelli di un Paese che ha il debito pubblico tra i più alti d’Europa ma il debito privato è il più basso d’Europa. Di conseguenza la politica dovrebbe essere capace di affrontare un intervento, sia attraverso le grande ricchezze, sia attraverso parziali dismissioni, anche di proprietà pubbliche, che mettano il Paese in condizione di portare il livello del deficit sotto controllo nel giro di 3-4 anni.
Serve quindi anche una buona politica
Si, quando si parla di questioni come salario e occupazione, abbiamo bisogno di una bella e buona politica, con la P maiuscola. Una politica che riprende a riflettere, a ragionare, a costruire pensieri lunghi, capace di interloquire anche con chi la pensa diversamente, che ragiona con i soggetti sociali, che non ha il problema di sentirsi così debole e fragile per cui ha timore anche della contaminazione nel rapporto con i sindacati. Ecco, sarebbe tempo di un grande rilancio. Ma se oggi guardo alle questioni che abbiamo affrontato, l’Italia per oggi e per il domani avrebbe bisogno di ripartire da quell’idea forza.
Emanuele Ghiani