Il segretario generale della Fisac Cgil, Agostino Megale, sentito da Il diario del Lavoro, ribadisce le ragioni alla base dello sciopero nazionale indetto dai sindacati per il prossimo 30 gennaio, contro lo “smantellamento” del contratto collettivo da parte di Abi.
Megale, quali sono le vostre aspettative sullo sciopero?
Non c’è dubbio che andrà bene. Anzi, benissimo. Le assemblee che abbiamo fatto in questo ultimo mese e mezzo hanno segnato una partecipazione senza precedenti. Ricordo che abbiamo alle spalle lo sciopero del 31 ottobre dell’anno scorso contro la disdetta. Dopo 13 anni di relazioni, tutte incentrate su un modello partecipativo di concertazione, veniamo a sapere che Abi ha deciso di azzerare tutto, puntando non solo a rendere difficile il rinnovo, ma addirittura a disdettare e dichiarare che dal primo aprile non ci sarà più il contratto nazionale. Intendono fare da apripista a coloro che vogliono eliminare i contratti nazionali di lavoro.
Perché l’Abi ha preso “d’emblée” questa decisione?
Da quel che si può capire, anche all’interno di Abi ci sono anime che vorrebbero mantenere e rinnovare il contratto, ma esistono gruppi che invece pensano che sia arrivato il tempo di azzerare e sostituire il contratto nazionale con la contrattazione aziendale. Questi ultimi, che possiamo individuare come i “falchi” dell’Abi, devono aver chiaro che con questo atteggiamento lo scontro sarà più duro e, piaccia o no, dovranno cambiare linea.
Se dopo venerdì le cose non dovessero cambiare, quali saranno le vostre prossime mosse?
La mobilitazione sarà più intensa e forte, con altri scioperi, perché non rinunceremo a conquistare un contratto in cui sopratutto viene evidenziata la dignità del lavoro. Nel rinnovo contrattuale, vorrei precisare, che non abbiamo remore a modificare e/o rafforzare anche alcuni elementi della contrattazione di secondo livello, penso alla mobilità.
Come dovrebbe essere il contratto?
Un contratto nazionale che tuteli l’occupazione e l’area contrattuale, che difenda il salario dall’inflazione. Inoltre serve un contratto nel quale si respinga il ricatto dell’abolizione degli scatti di anzianità o dell’intervento sul Tfr. Gli elementi di costo devono stare dentro una normale dinamica di gestione di una trattativa, che giunge a un contratto di questo tipo.
Cosa proponete per risollevare il settore?
Bisogna scommettere sul nuovo modello di banca a servizio del paese, delle pmi, degli artigiani, dei clienti e delle famiglie; bisogna prendere la strada del rilancio della banca commerciale e del credito industriale, attrezzando anche centri di consulenza specializzati su credito, questioni legali, fisco internazionale, azioni immobiliari. Insomma, ampliare una dimensione di servizio alla clientela, che metta i nostri istituti in condizione di tornare al servizio dell’economia reale, di rilanciare gli investimenti, di garantire servizi di politica industriale e, così, ridare competitività al paese.
Quindi il nodo sul rinnovo del contratto non riguarda solo la categoria, ma tutto il paese?
Il nostro stillo è far ripartire il motore del paese. Ma per farlo le banche devono riaprire i rubinetti del credito, e per riaprirli si devono ridurre le sofferenze; per ridursi le piccole imprese devono essere maggiormente capitalizzate e quindi l’intervento pubblico deve dare una mano. Tutto questo serve a tornare a un punto o due di Pil e cominciare a ricreare l’occupazione. Fare il contratto per noi vuol dire invitare l’Abi e il governo a confrontarsi su questo modello di banca che non si può lasciare ai banchieri o ai lobbisti che tanti guai hanno creato al nostro paese e non solo.
Cosa ne pensa del decreto del governo di conversione delle banche popolari in s.p.a?
Abbiamo scritto una lettera indirizzata al presidente del consiglio Renzi, al presidente di Abi e e quello del Banco di Credito Cooperativo, in cui affermiamo le tre ragioni alla base della nostra contrarietà al decreto: innanzitutto non c’è urgenza che motivi l’utilizzo dello strumento decreto; in secondo luogo la crisi nel settore del credito riguarda proprio le s.p.a, come il Monte Paschi di Siena; infine, nonostante le banche popolari hanno elementi da rinnovare, penso al voto capitario, sono anche quelle che hanno garantito un 1% in più del credito. Riformare è un conto, azzerare la dimensione popolare cooperativa guardando unicamente al mercato potrebbe aprire a spazi speculativi.
In che senso spazi speculativi?
Per farle un esempio, nei giorni precedenti si è verificata una sorta di assalto ai mercati speculatori, con l’acquisizione di pacchetti azionari, su cui è bene che Consob faccia luce per capire il nesso tra azione politica del decreto e manovre speculative in borsa. Siamo in una condizione in cui bisogna cambiare il decreto, e l’associazione che guida le popolari dovrebbe decidere, all’interno di Abi, di collocarsi tra quelli che il contratto lo vogliono fare e non tra quelli che lo vogliono eliminare.
Sulla lettera aperta a Renzi, cosa vi aspettate?
Ci aspettiamo che il presidente del Consiglio, che ha detto di voler ridurre i banchieri, scelga da che parte stare. Spero stia dalla parte di lavoratori e che inizi a correggere il decreto sulle popolari, che non farà certo rischiare il posto ai banchieri, ma ai bancari. Privare del contratto un settore come il nostro, sarebbe come un paese senza costituzione.
Quale crede che sarà l’impatto dell’operazione Draghi sull’economia?
Le misure di Mario Draghi e della Bce, e ci riferiamo in modo particolare al quantitative easing, penso che sia una scelta utile e positiva per l’Europa e per l’Italia. Ma da sola non basta. Perché con questa norma “si accompagna il cavallo alla fontana”, dato che per un vero rilancio del paese bisogna sostenere i consumi e rilanciare gli investimenti, allargando gli sgravi fiscali introdotti da Renzi e rinnovando tutti i contratti di lavoro. Insomma, serve la mano pubblica e, soprattutto, che le banche riaprano i rubinetti del credito.
Emanuele Ghiani