La Cgil si avvicina a un congresso difficile. Restano aperti problemi di fondo. Agostino Megale, segretario confederale, in che modo li risolverete?
L’83% della Cgil ha votato la mozione Epifani. E’ il dato più netto nella storia congressuale della confederazione. Per questo forse si poteva evitare la contrapposizione tra due mozioni. Il bisogno di unità interna era molto forte e la scelta di proporre una mozione alternativa non è stata vissuta bene dai nostri iscritti. Probabilmente all’interno di un congresso unitario la discussione di merito sarebbe stata più interessante e proficua.
Come finirà il congresso?
Gli iscritti hanno già scelto la linea sindacale. Il confronto si è chiuso con il voto. La Cgil non può affrontare una discussione permanente, è nei congressi che si decidono le cose. Adesso bisogna guardare al futuro di un governo unitario della confederazione, sapendo che questo non richiede nuove sintesi ma la capacità, anche da parte della minoranza, di rendere operativa e applicare la linea che ha vinto il congresso. Preferisco un governo unitario, ma se questo non è possibile, si può governare disponendo di una solida maggioranza.
Quali saranno i temi al centro del congresso?
La crisi è l’elemento centrale con cui fare i conti, i tempi con i quali ne usciremo, le conseguenze sul lavoro e l’occupazione, la nostra capacità di restare al passo con i principali paesi europei. Per questo parliamo di un progetto per il paese alternativo a quello del centro destra. Un progetto capace di accelerare i tempi di uscita dalla crisi difendendo e ampliando il tessuto occupazionale e i diritti e le tutele. Bisogna partire dai più deboli, quindi dai diritti di cittadinanza degli immigrati. Allo stesso tempo occorre immaginare un’idea di sviluppo in cui sostegno all’industria e all'”economia verde” rigenerino una maggior competitività, per far recuperare al paese quei differenziali di crescita con Germania, Francia e Gran Bretagna già persistenti prima della crisi.
In modo particolare ciò deve significare capacità di innovazione e sperimentazione del sindacato italiano, a partire dal rapporto con le nuove generazioni che nella crisi stanno pagando il prezzo più alto. A questo serve la Consulta delle professioni, un terreno di confronto con i giovani professionisti a partita Iva.
Come è possibile cogliere questi risultati?
È necessario far convergere la maggioranza dei lavoratori sui nostri obiettivi e stabilire un rapporto in cui i produttori assumano un ruolo centrale nello sforzo per uscire dalla crisi. Proprio a questo mira la campagna della Cgil sulla riforma fiscale, a sancire un “patto tra gli onesti” che oltreché rivendicare al Governo un fisco giusto, porti a una rivalutazione dell’etica assunta come valore anche contro la corruzione e l’evasione fiscale.
Per arrivare a questi obiettivi dovete ripercorrere la strada dell’unità sindacale?
Certo. Bisogna costruire un nuovo blocco sociale perché un progetto per il Paese ha bisogno di alleanze e a maggior ragione bisogna lavorare per ricostruire l’unità con Cisl e Uil. Finora la divisione sindacale non è di certo servita ai lavoratori ma è stata voluta ed ha rappresentato un valore aggiunto solo per il governo.
La nuova unità è dunque un passo obbligato?
Ricostruire l’unità è indispensabile, perché sindacato e lavoratori uniti hanno più forza, ma servono regole democratiche.
Ma il riavvicinamento non sarà facile.
Tra le confederazioni c’è una profonda condivisione sui grandi valori quali la lotta contro la mafia e il terrorismo, la difesa della Costituzione. Vi sono poi punti di vista sindacali diversi che in una normale democrazia vanno risolti con le regole democratiche. Tutto si può fare, ma servono delle regole precise sulla certificazione degli iscritti, sulla rappresentanza e sulla rappresentatività, sulla democrazia sindacale.
Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni ha dichiarato in un intervista la disponibilità della sua confederazione a sciogliere questi nodi. Noi dobbiamo andare a vedere, sapendo che c’era già un’intesa su queste materie. In ogni caso bisogna immaginare un’evoluzione legislativa sulla base dell’art. 39 della Costituzione.
La stagione contrattuale così come si è sviluppata può aiutare questo processo?
Bisogna fare attenzione a cosa è successo. Solo i metalmeccanici hanno avuto un contratto separato, tutti gli altri hanno raggiunto un accordo unitario. Ma la loro caratteristica è che hanno previsto aumenti salariali sopra l’inflazione e non hanno previsto deroghe, così dimostrando che l’accordo del 22 gennaio era inutile, inefficacie e dannoso. Ma al di là di ciò, quello che è emerso è l’esigenza sentita da tutti di regole precise di rappresentanza e democrazia sindacale.
Bisogna che tutti si adeguino, anche la Fiom?
Certo che bisogna coinvolgere anche la Fiom, il terreno della riconquista di un nuovo modello contrattuale, di un nuovo sistema di relazioni industriali non coinvolge solo chi è riuscito a rinnovare i contratti unitariamente, ma dovrà mettere in campo il meglio della capacità di analisi e di riflessione da parte di tutti.
Il sindacato può uscire per queste strade dalle sue difficoltà?
Intanto ci vuole consapevolezza che pur essendo in campo con le nostre idee, le difficoltà nel mondo del lavoro si sono accentuate. Ciò richiede capacità di difendere le identità storiche ma anche il coraggio dell’innovazione e del cambiamento. In particolare, su questioni sempre più centrali come la lotta alla xenofobia e al razzismo, non possiamo non vedere la contraddizione aperta nel nostro Paese tra il nostro iscritto al sindacato e scelte politiche sempre più egemonizzate da una cultura di destra e populista.