L’orizzonte sempre più ampio di quella che ormai si chiama industria 4.0, ovvero la quarta rivoluzione industriale, ci pone di fronte ad una prospettiva che cambierà radicalmente, come sta facendo già velocemente, il modo di guardare al lavoro, di crearlo, gestirlo ed organizzarlo anche sindacalmente.
Termini come big data, machine-to-machine, cloudcompunting non sono solo pane quotidiano per gli analisti dei nuovi processi che puntano a fare dell’azienda un mondo ancor più automatizzato ma soprattutto interconnesso e quindi più “intelligente”, ma sono capitoli già operativi di investimenti giganteschi in grado di definire nuove gerarchie, nella produzione, nello stato più o meno avanzato delle società, nei rapporti interni fra lavoratori e fra essi e coloro che navigheranno ai margini del mercato del lavoro.
Secondo alcune ricerche il saldo fra posti di lavoro distrutti e nuove opportunità di occupazione non sarebbe per nulla positivo, tracciando, per giunta, una demarcazione ancora più netta fra lavoratori in grado di reggere alle nuove competenze utili per svolgere le mansioni richieste e coloro che non le posseggono.
Ecco allora che non possiamo che attenderci l’emergere di alcune profonde differenze rispetto alla lettura che, anche contrattualmente, stiamo facendo del mondo del lavoro alle quali temo che non si sia preparati come servirebbe sia sul piano confederale che nel territorio. La riforma contrattuale, che va di pari passo con quella della rappresentanza, non può tenere fuori dal dibattito il futuro assai prossimo della nuova fabbrica ed è doveroso cominciare a chiedersi quale strategia adottare.
Ogni Paese cerca di attrezzarsi in fretta, così come, più a livello di principi che di risorse a dir la verità, sta cercando di fare la vecchia Europa. La parola magica sembra essere “investire”, verbo però finora sterile nell’Unione Europea se guardiamo oltre i proclami ed assai poco diffuso nel nostro Paese, a cominciare da coloro che per primi dovrebbero porsi concretamente il problema, vale a dire Governo e Confindustria. Certo, qualcosa si muove come le otto aree di intervento individuate dal Mise, ma non è pensabile affrontare questa poderosa innovazione senza prima aver ragionato fra tutti i protagonisti della scena economica su come procedere per aumentare le possibilità di successo senza creare le premesse per nuovi disastri sociali.
Se il futuro affolla le analisi, manca però anche da parte nostra, sindacale, una strategia in grado, culturalmente e sul piano degli indirizzi politici e contrattuali, di non ridurci ancora una volta sulla difensiva quando questi fenomeni diverranno una quotidianità che qualche milione di lavoratore si troverà a fronteggiare.
Siamo in presenza di una vera sfida e limitarsi ad osservare con paura o sufficienza è un errore da non fare. Già in passato il sindacato è stato capace di affrontare passaggi stretti o nuovi di fronte al suo cammino. Ed oggi, che stiamo puntando a fare anche passi avanti in termini di unità, una riflessione comune su queste tematiche può essere alla nostra portata.