La proposta di legge del Pd riguardo all’introduzione di un salario minimo legale per tutti i settori non coperti dalla contrattazione è l’ultima, in ordine di tempo, di tutta una serie di iniziative sul tema. Il sindacato ha da sempre ribadito la sua ostilità a questo strumento, che comporterebbe una disgregazione del sistema delle relazioni industriali, innescando un’uscita dal contratto nazionale e il dumping salariale. Per analizzare la situazione il Diario del lavoro ha intervistato Franco Martini, segretario confederale della Cgil.
Martini, il sindacato ha mutato idea riguardo al salario minimo legale?
Assolutamente no. Siamo fortemente contrari a questo strumento, perché rischia di diventare un incentivo alla fuga dal contratto collettivo nazionale. Dobbiamo infatti pensare che un ipotetico salario minimo legale sarebbe inferiore ai minimi contrattuali, e in queste condizioni l’azienda potrebbe benissimo disdire il contratto nazionale per adottare uno strumento riconosciuto dalla legge.
Si innescherebbe dunque una prassi al ribasso?
Certamente. Un dumping non solo salariale ma anche contrattuale, perché si andrebbe così a scardinare tutto il sistema di relazioni industriali.
I sostenitori di questo strumento potrebbero, tuttavia, obiettare che si tratta di una forma di tutela per i settori non coperti dalla contrattazione.
Prima di tutto va sottolineato che nel nostro mercato del lavoro sono pochissimi i settori non coperti dai contratti. Inoltre, un’impostazione di questo tipo dimostra un approccio al problema del tutto sbagliato.
Quale strada si dovrebbe prendere?
Il vero nodo è lavorare affinché i settori non coperti rientrino all’interno del perimetro del contratto collettivo nazionale.
Come si potrebbe fare?
Il primo passo è fare una legge sulla rappresentanza, per capire quali sono gli attori negoziali preposti alla stipula dei contratti. Con questo risultato in mano si potrebbe pensare di puntare anche all’erga omnes e in questo modo potremmo rivolgerci a tutti i lavoratori.
Di Maio ha proposto proprio oggi di misurare la rappresentanza delle parti sociali.
Si, però il ministro del Lavoro arriva in forte ritardo. Il sindacato da tempo spinge affinché si faccia una conta seria della rappresentanza e si ponga un freno al problema dei contratti pirata.
C’è anche il problema delle diversità dei vari settori, di cui il salario minimo legale non può tenere conto.
Certo: stiamo parlando di una norma trasversale, che non tiene conto delle specificità dei settori. È importante mettere ordine anche nei campi di applicazione contrattuale, perché non è strano trovare, all’interno dei cantieri, lavoratori ai quali viene applicato il contratto dei florovivaisti. Il salario minimo potrebbe aggravare tutti questi problemi, scardinando il sistema delle relazioni industriali.
Tra i sostenitori del salario minimo legale c’è chi afferma che la presenza di questo strumento in altri paesi dovrebbe essere un motivo ulteriore per adottarlo.
Il rifermento ad altri mercati del lavoro penso che venga fatto in modo improprio. Gli altri paesi europei non hanno una contrattazione collettiva diffusa come la nostra. Il Cnel certifica più di 860 contratti collettivi, che al netto di quelli pirata restano pur sempre un numero considerevole.
Secondo lei, perché manca la volontà di riportare certi settori all’interno delle maglie della contrattazione, e si punta invece sul salario minimo?
Credo per un motivo d’immagine. In questo modo la politica vuole dare l’impressione di occuparsi di tutti, sistemando sia le relazioni industriali, attraverso una misurazione della rappresentanza, sia chi ne rimane fuori, intervenendo con il salario minimo. Ma è pura propaganda. Cerchiamo prima di tutto di riportare i settori scoperti dentro la contrattazione, se poi dovessimo fallire in questo, vedremo quali soluzioni adottare.
Tommaso Nutarelli