La Marelli di Crevalcore non chiude, almeno per ora. Kkr, il fondo americano che la possiede, ha deciso di soprassedere a tempo indeterminato sulla sua precedente decisione. In attesa di trovare chi la rilevi. I sindacati sono parzialmente soddisfatti; la trattativa infatti andrà avanti, con altre tappe già fissate. C’è intanto da chiedersi a chi attribuire il merito di questa inversione di marcia. A Carlo Calenda, che negli ultimi giorni ha sollevato un gran polverone mediatico, accendendo di conseguenza un potente riflettore sulla vertenza nella fabbrica emiliana e probabilmente contribuendo così al rinvio della chiusura? O ai sindacati dei metalmeccanici, che questa vertenza hanno aperto e condotto a suon di scioperi e picchetti? Domanda non inutile, considerando che proprio Calenda ha accusato il sindacato, anzi, un sindacato soltanto, la Fiom e la Cgil, di non aver mai alzato la voce per impedire la vendita di Marelli e, più in generale, per evitare la decadenza di Stellantis.
In realtà, basterebbe dare uno sguardo all’archivio del sito della Fiom per rendersi conto che le cose non stanno proprio così. A una prima ricerca, anche abbastanza sommaria, si rinvengono, a partire dal 2018, ben 230 comunicati stampa; di cui 50 dedicati esclusivamente al “caso” della vendita di Marelli, e 180 invece su Stellantis più in generale. Tutti improntati alla massima preoccupazione per le sorti dell’automotive nazionale. Prendiamo Marelli: in realtà già il 19 dicembre 2017, quindi prima della cessione, il responsabile auto della Fiom, Michele De Palma, oggi segretario generale, usciva preoccupato da un incontro con l’azienda dichiarando che si era dimostrata “contraria ad aprire un confronto sul futuro proprietario del gruppo”, e chiedendo quindi un intervento diretto del governo per “garantire e implementare un settore strategico” per il paese. Il governo era quello di Paolo Gentiloni, con ministro dello Sviluppo economico proprio Carlo Calenda, e sottosegretario con delega all’industria Teresa Bellanova.
Ma il centro sinistra è ormai agli sgoccioli e in piena campagna elettorale; il 4 marzo 2018 si vota, vincono i Cinque stelle che, a giugno, faranno il governo con la Lega. Cambia il governo, ma non la posizione dei metalmeccanici. Il 17 settembre la Fiom lancia la campagna: “quale futuro per Marelli” e inizia a chiedere un intervento del governo. Nella nota si specifica che, sommando le voci e le indiscrezioni, risulta appunto che l’azienda sia in vendita. La Fiom dichiara la sua totale contrarietà e chiede al governo l’apertura urgente di un tavolo di confronto, sostenendo la necessità anche di “un intervento diretto pubblico”: la cessione di Marelli significherebbe infatti “la perdita di un prezioso know how per il sistema paese”. Il governo dell’epoca, giusto per ricordarlo, è il Conte primo, e al ministero di Via Veneto siede Luigi Di Maio, che assomma anche la carica di ministro del Lavoro.
A ottobre, non avendo avuto risposta alcuna da Di Maio, la Fiom chiede nuovamente un incontro ricordando al governo che: “Magneti Marelli è il gruppo più importante dell’automotive, un’eccellenza nella ricerca e nei prodotti, una cessione mirata solo a fare cassa potrebbe rappresentare un ulteriore impoverimento industriale del paese. L’intervento del ministro dello sviluppo economico deve essere immediato”. E ancora, ribadisce la richiesta di valutare una “partecipazione diretta” della mano pubblica, come accaduto per altri “settori strategici”.
Il 5 novembre si tiene una conferenza stampa “sulla situazione occupazionale negli stabilimenti Fca e Cnhi e sul futuro di Marelli”. Partecipa anche la segretaria generale, Francesca Re David, che ha sostituito Landini alla guida della Fiom, e che oggi siede nella segreteria confederale di Corso Italia. Ma niente accade. Si arriva al 2019, febbraio, ormai la frittata è fatta, Marelli è destinata ai giapponesi di Calsonic, negli stabilimenti inizia una girandola di assemblee, poi a ottobre inizia anche la cassa integrazione a Crevalcore e Bologna, per 900 addetti, la Fiom chiede un tavolo con la Regione che si affianchi a quello che dovrebbe prima o poi aprirsi al Ministero dello Sviluppo. Il 10 ottobre a Bologna si sciopera con lo slogan: “i lavoratori chiedono rispetto e futuro per la Marelli’’.
A novembre, Imec, il mensile della Fiom Cgil, esce con uno speciale, un dossier dal titolo “Marelli, un patrimonio da salvare”. Seguono mesi di alti e bassi, nei quali i sindacati tengono vive le relazioni industriali con la Marelli: protestano o scioperano quando c’è da protestare (per le richieste di cassa integrazione, o di esuberi) apprezzano quando c’è da apprezzare, come nel caso del rientro dell’azienda nel contratto nazionale dei metalmeccanici di Federmeccanica, abbandonando quello “specifico” di Fca voluto da Marchionne, o quando si realizza un buon contratto integrativo, approvato dal voto unanime dei lavoratori. Il sindacato, insomma, fa il mestiere del sindacato. E quando Marelli, il 19 settembre, annuncia la chiusura, passa allo sciopero (23 settembre) e ai picchetti. Tutto questo è raccontato puntualmente nei circa 50 comunicati dedicati al caso Marelli. Una lettura, per chi ha pazienza, molto interessante.
Ma altrettanto se non più interessanti sono i comunicati dei metalmeccanici Cgil su Fca e Stellantis: 180 malcontati, e solo quelli diffusi dal 2018 a oggi. Fondamentalmente si potrebbero tutti riassumere con: massimo allarme per l’andamento del gruppo, e di conseguenza costanti e pressanti richieste ai numerosi governi che si susseguono (Conte uno, Conte due, Governo Draghi, Governo Meloni). Un comunicato a caso, datato 17 luglio 2019: “sull’auto non c’è più tempo, il governo intervenga”. Nel testo, si denuncia il costante calo di vendite e l’altrettanto costante aumento della Cig: “avevamo definito il 2019 anno nero per la produzione dell’automotive, ma i numeri sono ancora peggiori delle previsioni”, avverte la Fiom. A Via Veneto siede ancora Di Maio, che di li a poco farà staffetta col collega di partito Patuanelli. Il quale, il 25 settembre del 2019, finalmente convoca un tavolo al ministero: “positivo che sia partito il tavolo che chiediamo da anni”, commenta la Fiom. Il sindacato avverte il governo che arrivano scricchiolii sinistri dalla componentistica, e non solo: ci sono migliaia di posti a rischio, a fronte di una capacità produttiva di 1,5 milioni di auto che non viene assolutamente raggiunta, e che andrebbe in qualche modo saturata, anche “invitando in Italia altri produttori”.
Ma dopo l’incontro non succede nulla. O meglio, qualcosa succede. A ottobre 2019 Fca annuncia la fusione con la francese Psa, da cui deriverà poi Stellantis. Il sindacato chiede immediatamente al governo di avviare un confronto “a garanzia di occupazione e produzione’’. Di per sé, spiega la Fiom, potrebbe essere una buona notizia dare vita al 4 gruppo mondiale, ma quello che “non è accettabile” è che il governo italiano si limiti al ruolo di osservatore: “mentre il governo francese ha chiesto che siano garantiti livelli occupazionali e di produzione, in Italia c’è una grave disattenzione per una operazione che avrà ripercussioni su tutta l’industria italiana”.
Nel 2020, a complicare il tutto, arriva purtroppo il Covid. Il 4 giugno 2020, lettera a Conte: “non è più rinviabile un intervento del governo in aiuto al settore, come avviene negli altri paesi europei’’. Scorrono settimane nelle quali i sindacati dei metalmeccanici non si danno pace. Non solo sollecitano ministri e sottosegretari vari, ma avviano un vero e proprio tour di incontri con i gruppi parlamentari, i leader dei partiti, e via dicendo: il 17 giugno con Liberi e Uguali, il 18 col Pd, il 25 con Italia Viva, il 30 con i 5 stelle, il 1° luglio con la Lega. Il 6 agosto ancora i sindacati scandiscono: “basta con l’immobilismo, il governo usi i fondi del Recovery fund per rilanciare il settore auto”. Ma risponde solo il silenzio.
In autunno, siamo ancora nel 2020, nasce Stellantis. Già all’annuncio della composizione del Cda i metalmeccanici intuiscono che la testa del nuovo gruppo si sposterà in Francia, e lo denunciano: “La debolezza del sistema italiano ha costruito le premesse per quello che poi è accaduto”, scrivono, rinfacciando nuovamente al governo la sua inazione. Ma intanto arriva anche una nuova ondata di Covid e di nuovo stop a tutto. Si riprende nel 2021, stavolta con Mario Draghi al timone del governo e con Giancarlo Giorgetti al Mise. Ma le priorità sono ben altre che l’auto: sono il Pnrr, sono la campagna vaccinale. Il 16 marzo De Palma afferma: “la crisi è sempre più grave, Tavares (Ceo di Stellantis) parla di costi troppo elevati, occorre subito un tavolo col governo, per Stellantis e per tutto il settore automotive”. E ancora: “ci aspettiamo che Draghi faccia quello che i suoi predecessori non hanno mai fatto”, e cioè realizzare un progetto che tenga in piedi l’auto.
A giugno, in effetti, si tiene un incontro al Mise, che il sindacato definisce “importante”. Si parla di elettrificazione (nel frattempo è arrivata anche la svolta green, e aumentano i rischi per l’occupazione e la tenuta dell’auto), e di investimenti. Ma già in autunno la situazione precipita nuovamente. A gennaio 2022 il sindacato lancia l’iniziativa Safety Car, per sensibilizzare sul tema del declino dell’automotive. Il 3 febbraio, poi, si celebra un evento inaudito: sindacati e “padroni” ovvero i vertici di Federmeccanica, per la prima volta uniti, presentano un documento congiunto sulla crisi dell’auto, chiedendo al premier di avviare immediatamente un confronto, istituendo anche una specifica Autorità che coordini i diversi ministeri su un piano auto nazionale. L’obiettivo, dice Francesca Re David, deve essere quello di tornare a produrre in Italia “un milione e mezzo di vetture”: “siamo passati da secondo a ottavo produttore di auto in Europa, attualmente viene utilizzata metà della capacita produttiva”. Una situazione insostenibile.
Andiamo avanti veloce. A inizio 2022 la politica è distratta prima dalla corsa per il Quirinale, poi dalla crisi di governo che manda a casa anche Draghi. A settembre 2022 si vota, l’estate passa in campagna elettorale. Alla fine vince la destra di Giorgia Meloni e al ministero, ribattezzato “del made in Italy” e nottetempo illuminato da fari tricolore, arriva Adolfo Urso. Molte promesse, dichiarazioni di intenti, afferma a sua volta che occorre aumentare la produzione italiana fino almeno a un milione di auto, ma in concreto non succede nulla. Il ministero è del Made in Italy, ma l’auto è sempre più “made in France’’. Il governo è impegnato su altri fronti, dai rave party agli immigrati: l’auto? boh. E siamo a settembre 2023, intanto già scattano alcuni scioperi, a Melfi e nell’indotto, mentre Marelli annuncia la chiusura e poi se la rimangia: forse grazie alla mediazione del ministro Urso, o forse grazie al fatto che Kkr è in corsa per acquisire dallo stesso governo una parte importante di Tim. In ogni caso, per prendere tempo, il Ministero rinvia tutto a novembre. Dopo la legge di bilancio, e prima che inizi la campagna elettorale per le elezioni europee. Chi vivrà, vedrà.
Tirando le somme: chi è stato più silente e accomodante rispetto ai “poteri forti” industriali ed editoriali evocati da Calenda? Un sindacato che in cinque anni ha sfornato centinaia di allarmi, dossier, proteste, iniziative, scioperi, chiedendo aiuto e supporto, alleandosi perfino con le controparti per ottenere ascolto e attenzione? O una classe politica che negli ultimi cinque anni ha dato vita a quattro governi, vivendo in perenne campagna elettorale? Ai posteri, eccetera, eccetera.
Nunzia Penelope