Michele Tiraboschi – Professore Associato di Diritto del Lavoro – Università di Modena e Reggio Emilia
Nei giorni immediatamente successivi alla tragica sera del 19 marzo ho più volte respinto l’ idea di scrivere un ricordo di Marco. Non si trattava certo di rinunciare – semplicemente – a una vera e propria commemorazione, che peraltro Marco, al pari del Suo Maestro [1], non avrebbe probabilmente gradito. E neppure, almeno così credo, di uno sterile tentativo di arginare, per quanto possibile, le penose emozioni e i turbamenti di chi avrebbe voluto si fosse trattato di un bruttissimo incubo, e che, ancora oggi, ogni volta che squilla il telefono pensa che sia lui … , pensa a lui …
Si è trattato, piuttosto, di un sentimento di pudore verso un dolore intimo e privato, e che tale voleva restare, quasi come se parlare di Marco significasse non solo recidere definitivamente quel cordone che ci ha fortemente legati per più di un decennio, gioendo l’uno per i successi dell’altro, ma anche svendere parte dei ricordi, dei sentimenti più profondi e dei sacrifici che, giorno dopo giorno, hanno dato corpo a un sodalizio, umano prima ancora che professionale, per me unico e certo irripetibile. Marco Biagi ha segnato profondamente la mia vita, così come credo di avere anche io segnato parte della sua.
L’impulso a scrivere non è neppure venuto da quelle che, in circostanze normali, sarebbero per me state delle vere e proprie sollecitazioni. Strumentalizzazioni politiche, commemorazioni retoriche, girandole di parole in libertà non mi hanno minimamente toccato: la rabbia del momento si è subito tramutata in dolore e, ora, in un sentimento di profonda malinconia e solitudine. Solo con i fatti, rimettendo cioè faticosamente e silenziosamente in moto il Centro Studi Internazionali e Comparati modenese da lui fondato e diretto a partire dal lontano 1991, io e gli altri ragazzi di Marco (Riccardo Salomone, Alberto Russo, Olga Rymkevitch e Carlotta Serra) avremmo potuto replicare a tante ingiustizie e forzature; solo così Marco avrebbe continuato a vivere e a far parlare di sé e di quel piccolo miracolo creato in pochi anni dal nulla – la Mecca del comparatista e dello studioso di diritto del lavoro e di relazioni industriali, come scrive ora Roger Blanpain sul n. 2/2002 dell’International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations.
Credevo, da ragazzino, di aver già pagato un caro prezzo alla morte, ma mi sbagliavo. Con la maturità di oggi mi resta non solo il vuoto di allora, ma questa volta anche un rimpianto: quello di un discorso rimasto a metà, quello di un ultimo saluto alla stazione dei treni di Bologna non certo dei più belli, quello di un sogno e di tanti progetti spezzati in un colpo solo e senza alcuna giustificazione, quello di una consapevolezza di ciò che è successo che da ragazzino non ho certo avuto. E mi resta anche una vita nuova, quella di una bambina che sta per nascere: una bambina che mi insegna che comunque, anche questa volta, occorre guardare avanti e dare un nuovo senso alla esistenza per riempire quel vuoto del periodo adolescenziale che proprio Marco mi aveva aiutato a colmare e che ora, inesorabilmente, ha iniziato a riemergere.
Spero, e anzi sono certo, che, accanto ai sentimenti di rabbia, malinconia e solitudine, presto anche Marina, Francesco e Lorenzo impareranno a coltivare un nuovo, straordinario amore: quell’amore che si alimenta e feconda nel ricordo di Marco e di tutti quei piccoli episodi quotidiani che ci sembrano tanto banali e scontati, ma che in realtà fanno giorno per giorno la nostra vita.
No: non è vero che ora niente ha più senso, e questo lo dico a me stesso ma anche – e soprattutto – a Lorenzo. Se noi non fossimo mai esistiti sarebbe stato peggio, perché mai avremmo avuto la fortuna di incontrare e conoscere Marco; mai avremmo avuto il privilegio di ridere, scherzare, gioire e anche di litigare con lui. E questo, sono certo, lo capiremo tutti meglio solo con il passare degli anni.
Pur nella profonda diversità di carattere e di personalità, mi accomunava a Marco una profonda, istintiva fede in Dio. La spiegazione di quello che è accaduto resta certo un mistero, come un mistero è la nostra vita, la grandezza e le miserie della nostra quotidianità, la precarietà dell’ esistenza, tanti sacrifici che ora sembrano inutili e senza senso. Sono altrettanto certo però che ci rivedremo ancora e che nel frattempo, anche se da lontano e chissà con che razza di bicicletta (perché di una bicicletta ti sarai sicuramente già dotato!) [2], accompagnerai tutti noi: la tua famiglia, i tuoi ragazzi del Centro Studi modenese e tutti quelli che ti hanno voluto veramente bene.
Due sono stati, credo, i passaggi che, per così dire, mi hanno sbloccato e indotto ad affidare alla penna un ricordo di Marco come uomo e come Maestro.
Il primo è rappresentato dalla lettura di un intenso editoriale di Giampaolo Pansa su L’Espresso. Un pugno nello stomaco, già a partire dal titolo: ‘Biagi, chi era costui?’ [3]. Pansa scrive una verità amara quando dice: Taliercio, Rossa, Casalegno, Tobagi: nomi e storie che non hanno più eco. Presto accadrà lo stesso con il prof. Marco Biagi e si dirà: Biagi, chi era costui?’. La vicenda di Massimo D’Antona – compressa tra l’indelebile ricordo che di lui hanno i familiari, gli amici più intimi e gli straordinari allievi, da un lato, e la sostanziale indifferenza non dico del grande pubblico ma anche di molti lavoristi, non necessariamente tra i più giovani, dall’altro lato – ne è una chiara dimostrazione [4].
Ancora più decisiva è stata poi la lettura, nelle diverse stesure che mi sono state via via sottoposte, della bellissima commemorazione scritta da Marcello Pedrazzoli per la Rivista Italiana di Diritto del Lavoro [5]. Non tanto perché Pedrazzoli mi ha dolcemente (e paternamente) invitato, al di là di ogni ‘questione’ o ‘lettura’ accademica, ad assumermi le mie responsabilità, di allievo e amico di Marco, ma prima di tutto perché era stata finalmente assolta da un osservatore certo a lui vicino, ma comunque pur sempre ‘esterno’, l’opera di ricordo e commemorazione del Prof. Marco Biagi, che certo a me non compete.
A questo punto, credo, non solo posso, ma anche devo affidare a un testo scritto il ricordo ‘dall’interno’ di Marco Biagi, come uomo e come Maestro, completando quanto Marcello Pedrazzoli ha così bene scritto e quanto altri ancora (e altrettanto bene) sicuramente scriveranno, contribuendo opportunamente a estendere i punti di osservazione attraverso cui valutare e apprezzare l’opera scientifica e la personalità di Marco. Mi sono persuaso che anche questo è uno dei modi per dare eco a un nome e a una storia che, per chi come me gli stava vicino (gomito a gomito, come mi ha detto Gigi Montuschi, suo imprescindibile punto di riferimento per moltissimi anni, facendomi commuovere e sanando con un tocco miracoloso una ferita da troppo tempo aperta), vanno ben oltre i numerosissimi e sbalorditivi successi accademici e professionali; ed è questo, credo, pure un imprescindibile punto di partenza per dare un nuovo senso alla vita di Marco come anche a quella delle persone che, ‘dall’interno’, con lui hanno vissuto e quotidianamente condiviso quelle gioie e quei sacrifici su cui si fondava uno straordinario metodo di lavoro o, il che è lo stesso [6], l’ostinazione del progetto.
Bologna, 14 aprile 2002
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I. Marco Biagi e Federico Mancini: giuristi ‘progettuali’
‘ 2 – 4 – 86
A Marco, l’allievo che più da vicino ha seguito le mie orme, un libro in cui il liberal trova spiegate le ragioni del suo liberalism: cioè del suo rispetto per le società che ambiscono solo ad essere decenti.
Il capostipite’
In questa dedica del Capostipite, impressa sulla prima pagina di Una teoria della giustizia di John Rawls [7], c’è molto di Marco. Il suo legame con il Maestro, innanzitutto. Ma anche il pragmatismo riformatore proprio di chi, armato solo di tenacia, ostinazione e di tanta pazienza, ambisce a incidere concretamente sulle istituzioni e sui meccanismi regolatori di una società complessa a tradizione democratica e pluralista. Come Federico Mancini, anche Marco Biagi era un giurista ‘progettuale’ e il suo percorso umano e in senso lato ‘professionale’ può giustamente essere letto, da questo punto di vista, come il completamento del Capostipite della scuola di Diritto del lavoro di Bologna.
Ogni componente della Scuola bolognese rappresenta indubbiamente, secondo le diverse inclinazioni e metodologie, l’ideale prosecuzione del lavoro iniziato da Federico Mancini. Rispetto agli altri allievi, Marco lo aveva seguito non solo nella scelta del metodo – quello della comparazione giuridica – ma soprattutto nella passione politica (forte quanto la comune passione per il Bologna calcio) e, più recentemente, grazie al fondamentale apporto di Tiziano Treu, proprio sul piano della progettualità. Anche Marco – come lui stesso amava definirsi negli ultimi tempi – era un giurista ‘a progetto’.
Di Marco Biagi e delle riforme possibili ha già brillantemente scritto Marcello Pedrazzoli e qualcosa aggiungerò anche io in seguito. Quello che, invece, mi preme subito evidenziare è il parallelo tra Federico Mancini e Marco Biagi. Non solo perché Marco mi parlava sempre del suo Maestro e di quello che egli avrebbe presumibilmente fatto al suo posto in circostanze analoghe. E’ sufficiente leggere Federico Mancini: un giurista ‘progettuale’ [8] per capire come Marco si sentisse – pur nella chiarissima percezione della sua spiccata individualità e di quella che lui definiva ‘ l’inavvicinabilità’ del Maestro – una proiezione vivente di Federico Mancini.
In questo ricordo di Mancini Marco vedeva, come è naturale che fosse, anche se stesso e il suo itinerario umano e accademico in particolare: il comparatista, in primo luogo, ma anche il Maestro (di una nascente scuola modenese), e poi via via l’innovatore, il moderno, il protagonista [9]. Come Federico Mancini anche Marco Biagi era tutte queste espressioni che fanno di un giurista il ‘giurista progettuale’. Ed è così che, anche io, lo voglio ricordare.
II. Marco Biagi comparatista
Non sta a me dire se Marco sia stato un grande comparatista. La mia risposta sarebbe non solo scontata ma anche di parte, e ancora fresche sono nella mia memoria le polemiche, recentissime e sempre meno velate, sull’uso che Marco faceva del metodo comparato. Mi limito a dire, a questo proposito, che Marco non solo ben conosceva il classico studio di Otto Kahn-Freund su L’uso e l’abuso del diritto comparato ma aveva anche umilmente recepito, cosa credo unica nel panorama giuslavoristico italiano, la fondamentale indicazione di metodo in esso contenuta: fare del proprio sistema nazionale semplicemente uno dei vari ordinamenti posti a confronto, in modo da analizzarlo unicamente in rapporto alle sue intrinseche caratteristiche [10].
Era diventato naturale, per Marco, prescindere dalla centralità del nostro sistema giuridico nazionale: non certo per protervia intellettuale ma, molto più semplicemente, per una innata capacità – che gli era riconosciuta dallo stesso Federico Mancini – di guardare lontano e di prevedere con larghissimo anticipo avvenimenti e scenari futuri. E questo, se può avere contribuito ad alimentare in talune circostanze qualche incomprensione con chi fatica, più o meno consapevolmente, ad abbandonare la limitata prospettiva di osservazione offerta dal diritto del lavoro nazionale, costituisce a ben vedere la grande eredità di Marco Biagi comparatista.
La sempre più preponderante dimensione europea e comunitaria del diritto del lavoro, l’internazionalizzazione dei mercati e i complessi processi che hanno recentemente condotto alla sostanziale perdita di sovranità statale sulle regole che governano i meccanismi di produzione e di trasferimento della ricchezza non potevano certo spiazzare chi, come Marco, aveva già da tempo abbandonato gli stretti abiti del giurista nazionale. Anzi, proprio questa sua equidistanza dai diversi sistemi nazionali rendeva particolarmente agevole l’esercizio del benchmarking, che tanto ha caratterizzato l’evoluzione del pensiero e della abilità progettuale di Marco.
Marco non era interessato – semplicemente – alla circolazione dei modelli. La comparazione, almeno a partire dall’ultimo decennio, era per lui l’unico modo possibile per verificare in anticipo l’esito applicativo delle tecniche regolatorie in via di progettazione [11], contribuendo al tempo stesso a dissolvere falsi problemi e resistenze ideologiche rispetto al progetto di modernizzazione del mercato del lavoro italiano. L’ultimo lavoro collettaneo da lui curato, dedicato alla nuova disciplina del lavoro a termine [12], costituisce un chiaro esempio di come la comparazione avrebbe per lui dovuto servire a condurre alla conoscenza e alla risoluzione pragmatica dei problemi del lavoro. La comparazione – ha scritto Rodolfo Sacco in un libro a noi particolarmente caro – è storia, ‘e questa storia, che distrugge i falsi concetti, conduce alla conoscenza’ [13].
Ancora fondamentale, in questa prospettiva, è stato l’apporto di Tiziano Treu. Se Gigi Montuschi, il suo secondo Maestro, lo aveva fortemente sostenuto e assecondato nella scelta del metodo comparato, Tiziano Treu ha in seguito fornito, a partire da un memorabile convegno di Kyoto del 1983, la guida ideale sotto il profilo della applicazione concreta e pragmatica del metodo stesso [14]. Credo che Marco mi abbia descritto almeno una decina di volte l’intensa emozione che ebbe, durante quel convegno, nell’aiutare Tiziano Treu a elaborare un suo intervento: una emozione certo non inferiore a quella che, quindici anni dopo, in qualità di Presidente dell’AISRI, lo accompagnò nella organizzazione, ancora una volta a fianco dello stesso Tiziano Treu, dell’XI congresso mondiale della Associazione Internazionale di Relazioni Industriali [15].
E sempre a Kyoto avviene l’incontro con Roger Blanpain: un giurista e un uomo per molti aspetti assai diverso da Marco, ma che inequivocabilmente è stato per lunghi anni il depositario di un modello organizzativo alquanto sofisticato e che molto ha inciso sul nostro metodo di lavoro nel Centro Studi modenese. Da questo punto di vista Marco si considerava un allievo anche di Roger Blanpain e sicuramente avrebbe realizzato, nei prossimi anni, qualcosa di comparabile alla monumentale International Encyclopaedia for Labour Law and Industrial Relations curata dallo stesso Blanpain per i tipi di Kluwer Law International.
Certo, nell’insieme il quadro che ho appena tratteggiato può forse apparire meno emblematico e significativo del leggendario viaggio di Federico Mancini e Gino Giugni sulla nave che li portava negli Stati Uniti a studiare il modello nordamericano e da lì, nell’arco di pochi anni, a cambiare profondamente lo sviluppo del nostro diritto del lavoro. Ma a ben vedere quello di Marco è stato un itinerario culturale non meno affascinante e straordinario, proprio del comparatista di razza, e cioè di colui che non si limita a uno studio a tavolino dell’esperienza di altri ordinamenti, ma che, anzi, umilmente riconosce come la realizzazione di un vero studio comparato non possa mai essere una attività individuale. Per la ricerca comparata, scriveva Marco, ‘è quasi scontato che una gran parte del lavoro (la raccolta di informazioni bibliografiche ma soprattutto la conoscenza del funzionamento effettivo di un sistema) sia realizzata grazie alla collaborazione di altri colleghi’ [16].
Basta scorrere velocemente il programma scientifico di uno dei tradizionali convegni modenesi, o anche solo una delle immancabili prefazioni ai numerosi contributi comparati [17], per accorgersi della straordinaria abilità di Marco nel mettere in rete, grazie alla sua proverbiale affidabilità e serietà, un gruppo variegato di insigni giuslavoristi, tra cui devo senz’altro ricordare oltre al ‘fratello’ Yasuo Suwa, almeno Lammy Betten e Alan Neal, da cui aveva recentemente ereditato la gestione dell’International Journal of Labour Law and Industrial Relations, edito per i tipi di Kluwer Law International.
Altra figura importante è stata infine quella di Manfred Weiss, un altro grande Maestro, particolarmente affine a Marco per rigore di metodo e per affidabilità, con cui era da poco stato lanciato uno dei tanti progetti internazionali: la realizzazione, con l’aiuto di una straordinaria rete di corrispondenti nazionali, di una pubblicazione periodica intitolata Employee Involvement in Europe. Sotto la Presidenza di Manfred Weiss della Associazione Internazionale di Relazioni Industriali Marco ha avuto appena il tempo di assaporare l’onore e l’immensa soddisfazione di essere indicato tra i cinque General Rapporteurs per il prossimo congresso mondiale della Associazione (Berlino, settembre 2003). Un convegno che sarebbe stato forse diverso dagli altri visto che, per la prima volta, era prevista la presenza non solo di Marina, refrattaria agli aerei, ma anche di tutta la sua squadra modenese al completo.
Ma farei un torto a Marco se non ricordassi un’altra sua grandissima dote, propria del vero comparatista. Come la comparazione non ha paura delle differenze tra sistemi e modelli, per quanto grandi esse siano [18], così neppure Marco poneva (e si poneva) limiti o barriere di status accademico e di provenienza geografica e culturale. Le sue Summer Schools, le lezioni agli studenti della Hopkins e del Dickinson, i frequenti convegni internazionali, organizzati prima presso il Sinnea International e poi, a partire dal 1994, presso la nuova sede del Centro Studi modenese, erano un formidabile laboratorio umano, prima ancora che scientifico. Era lì che neo-laureati e studenti di ogni provenienza potevano facilmente avvicinare, in un clima di stupefacente informalità che mai ho respirato in altri ambienti accademici italiani, lo studioso di fama internazionale, il Ministro, il Commissario europeo, ecc. facendo quella che Marco, ancora recentemente, ha definito ‘comparazione dal vivo’ [19].
Ancora impressa nella mia memoria è una calda sera del luglio del 1997, quando nella cerimonia di consegna degli attestati di frequenza della Summer School in Labour Law and Industrial Relations, accanto alla immancabile figura di Tiziano Treu si materializzò improvvisamente – e inaspettatamente – quella dell’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi, che non esitò un secondo ad andare incontro ai nostri studenti e ai giovani ospiti stranieri, ancor prima di aver salutato le autorità presenti. Una fotografia di Marco, circondato da Tiziano Treu, Romano Prodi, un giovane ricercatore giapponese, la nostra prima allieva modenese Giulia Moretti e la collega canadese Véronique Marleau, spicca ancora oggi nell’ingresso del suo studio di via Valdonica, vicino a quel letto che, per lungo tempo, ha ospitato il ‘fratello’ Yasuo Suwa e di seguito, per quasi un anno e mezzo, anche il sottoscritto, ancora intento in quella fase a trovare una sistemazione definitiva nella città di Bologna. La chitarra e la voce di Enrico Traversa, che avevano reso magica quella serata, riempiono di suoni e suggestioni la malinconia di questi giorni.
III. Marco Biagi ‘Maestro’
Se l’estrema informalità dei rapporti accomunava Marco a Federico Mancini, lo stesso non si può certo dire con riferimento al ruolo di ‘Maestro’. Marco Biagi non ha mai avuto una sua Scuola, e forse solo ora si stavano verificando a Modena alcune particolari condizioni che avrebbero potuto consentire di dare corpo, di qui a qualche anno, a un progetto tanto ambizioso quanto gravido di responsabilità. E’ infatti solo tra il 2000 e il 2001 che inizia a stabilizzarsi un gruppo di giovani studiosi, tra cui spiccano i nomi di Alberto Russo, Olga Rymkevitch, Carlotta Serra e, in condivisione con Franco Carinci, Riccardo Salomone.
Sino ad allora la dimensione di Marco era sempre stata quella della ‘bottega artigiana’. Questa espressione gli piaceva moltissimo, e la ripeteva in continuazione, orgoglioso del fatto che, affiancato da un inesperto e grezzo apprendista bergamasco, avesse ugualmente potuto realizzare una serie impressionante di lavori, di rilevanza nazionale e internazionale, tanto da dare effettivamente l’impressione di potersi avvalere già da lungo tempo di una fiorente scuola modenese. Non era così. Ad affiancarci erano unicamente i nostri studenti del quarto anno di economia politica e di economia aziendale attratti dalle qualità umane e dal fascino di Marco.
Presto il nostro ufficio divenne famoso in tutta la Facoltà. Diversi fattori – tra cui l’informalità dei rapporti, l’estrema accessibilità del docente, la cura nel seguire le tesi di laurea, la disponibilità di qualche computer e di un validissimo tecnico informatico, Vincenzo Salerno, sempre pronto a dare una mano, l’abilità di Marco nel tessere i rapporti con le aziende, sperimentando in forme pionieristiche l’istituto del tirocinio aziendale, un primo ponte verso l’inserimento nel mercato del lavoro di tanti ragazzi – ci consentirono di aggregare un gruppo straordinario di persone, pronte a dedicare gratuitamente tempo e preziose energie a sostegno del nostro progetto. Ricordo, in particolare, Serena Vaccari, Giulia Moretti, Emanuala Salsi e Ylenia Franciosi, e poi anche Giorgia Verri, Silvia Spattini, Elisa Pau, Federica Gambini, Alessandra Lopez, Federico Bacchiega, Cinzia De Luca, Barbara Maiani, Cristina Fantuzzi, Gianluca Nieddu, Anna Simonini, Francesca Crotali, Paolo Fontana, Federica Rossi, Lucia Mangiarelli, Luana Ferraro, Sabrina Guerzoni, Francesca Bianchi, Giuseppe Bertoni e Massimo Morselli.
Sei mesi, un anno, a volte anche di più, per quegli studenti che, al termine del corso, iniziavano subito a frequentare i nostri uffici. Tanto duravano le collaborazioni. Ma i rapporti che si sono instaurati sono spesso andati ben oltre la collaborazione informale, e alcuni di essi ancora oggi continuano nella dimensione più genuina e gratuita della amicizia. In questo Marco fu un vero Maestro: non un ‘caposcuola’ nel senso proprio del termine, ma sicuramente una guida che ha sempre voluto attorno a sé un gruppo di persone giovani legate da un grande senso di stima collettiva e di partecipazione a un progetto. Una grande qualità di Marco era certo, da questo punto di vista, la sua naturale capacità di gioire, nel profondo del cuore, dei primi successi di questi ragazzi e del suo gruppo in generale.
Farei un torto a Marco e alle persone che hanno di volta in volta lavorato con noi se nascondessi il fatto che tale forma di aggregazione sia potuta talvolta degenerare, alimentando delusioni e tensioni, e anche qualche leggenda circa il suo rapporto con i collaboratori. Forse, in talune circostanze, l’ostinazione del progetto è diventata insensibilità verso gli innegabili meriti acquisiti da alcuni dei nostri ragazzi. Ma qui mi assumo io, in prima persona, tutte le responsabilità, perché ero sempre io a cedere alla tentazione di fare di ogni nostro studente un piccolo ricercatore, alimentando inconsapevolmente aspettative accademiche che, vuoi per la particolare collocazione di Marco nella Scuola bolognese vuoi per la fragile preparazione giuridica di chi si forma in una Facoltà di Economia, non potevano forse essere assecondate. E’ da questa consapevolezza che sono nate le prime collaborazioni più stabili con giovani giuristi, in una prima fase con Nicola Benedetto e Giuseppe Martinucci, e poi a seguire con alcuni dei miei ultimissimi studenti milanesi, primi tra tutti Giuseppe Mautone e Marina Mobilia. Ed è da qui che, subito dopo, è nata l’idea di gruppo, una volta ottenuta una collocazione per Riccardo Salomone, come ricercatore, e per Alberto Russo, come assegnista di ricerca. Ad Olga Rymkevitch, arrivata a noi da San Pietroburgo nel febbraio 2001, grazie una borsa del Ministero degli Esteri italiano, carica di speranze e di entusiasmo, e a Carlotta Serra, aggregara al gruppo nel luglio del 2001 e subito divenuta la cocca del Maestro per la sua spiccata personalità, si era nel frattempo da poco aggiunta anche Flavia Pasquini. Facile prevedere che, di lì a poco, sarebbe finalmente potuta germogliare una vera e propria Scuola modenese. Era solo questione di tempo.
Sicuramente Marco è stato un Maestro nel vero senso della parola almeno per me e, per un breve periodo di tempo, anche per Elisabetta Faraone sua primissima allieva sul volgere degli anni Ottanta. A lui devo molto, e non solo in campo accademico. E’ stato lui a credere in me e a portarmi nell’ormai lontano 1992, su indicazione di Stefano Liebman e Luciano Spagnuolo Vigorita, dalla Statale di Milano a Modena, dopo un soggiorno di un anno presso l’Istituto di Diritto del lavoro dell’Università Cattolica di Leuven sotto la guida di Roger Blanpain. E’ stato lui a insegnarmi il mestiere presso la sua bottega di artigiano e a gratificarmi giorno per giorno, grazie anche al progressivo affidamento di incarichi via via più delicati e stimolanti. La collaborazione si è poi presto trasformata in un legame intensissimo, in un rapporto di simbiosi, che non prevedeva soste e tentennamenti. Credo ci completassimo perfettamente, e così almeno pensavamo. Ci sentivamo amici, ma sapevo bene che questo legame, al pari di tutti i rapporti fondamentali della vita, non poteva essere semplicemente definito in questi termini.
Come Maestro mi stupiva non tanto per lo scrupolo che poneva nella lettura dei miei lavori, ma soprattutto per l’estrema lucidità con cui mi assegnava un percorso di studio, prevedendo con largo anticipo temi che, solo qualche anno più tardi, sarebbero diventati di estrema centralità nel dibattito italiano. Il lavoro intermittente tramite agenzia già nel corso del 1991, quando tale tipologia contrattuale non solo era vietata nel nostro Paese, ma ancor più era praticamente sconosciuta anche agli addetti ai lavori [20]. Lo stesso nel 1998 quando, prima ancora che avessi terminato la prima vera monografia, mi indicò il tema degli incentivi alla occupazione e del diritto comunitario della concorrenza. Un lavoro che, dopo le ultime revisioni, ho terminato solo un paio di mesi fa e che, dopo l’attenta lettura di Tiziano Treu e di Mario Rusciano, ho consegnato in tipografia il giorno 18 marzo. Il giorno precedente, domenica 17, con la consueta e-mail del post-partita, che anticipava l’altrettanto consueta telefonata domenicale con cui veniva commentato il risultato del Bologna e impostato il lavoro della settimana a seguire, Marco mi aveva appena inviato la prefazione che fa da apertura a questo lavoro.
In uno dei dettagliatissimi e meticolosi ‘memo’ giornalieri, che caratterizzavano il nostro metodo di lavoro ad integrazione del programma domenicale della settimana lavorativa, faxatomi da Marco il 19 marzo alle ore 10.50, qualche ora prima di uscire di casa per raggiungerci a Modena, alla mia segnalazione dell’invio in tipografia della monografia, mi ha risposto: ‘Ottimo!’. Questo è l’ultimo ricordo che ho di Marco come Maestro. Ho però anche una eredità. Come al solito, mi aveva già da tempo indicato la terza monografia: lo ‘Statuto dei lavori’, su cui mi ero impegnato con lui dal 1997, nell’ambito della nostra collaborazione con Tiziano Treu [21] e che, in forma del tutto empirica, stavamo già iniziando a sperimentare a Bologna, grazie al generoso sostegno della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, con cui avevamo messo a punto un pionieristico meccanismo volto alla c.d. certificazione (o validazione) dei rapporti di lavoro nell’ambito delle prestazioni di assistenza domiciliare agli anziani. Questo sarà il mio impegno principale nei prossimi mesi.
IV. Marco Biagi innovatore
Se Federico Mancini è stato uno dei primissimi giuslavoristi moderni, Marco Biagi ne rappresenta l’ideale prosecuzione in un contesto socio-economico e istituzionale profondamente diverso. Anch’egli era infatti profondamente determinato a voltare pagina nella evoluzione della nostra materia, dando un contributo fondamentale, in particolare, al processo di comunitarizzazione del diritto del lavoro.
La sfida insita nella recente riforma del Titolo V della Costituzione avrebbe sicuramente costituito un ulteriore e decisivo punto di svolta nella sua opera di rivisitazione e modernizzazione del diritto del lavoro, come dimostra uno scritto inedito – e non ancora terminato – che apparirà su uno dei prossimi numeri della sua rivista Diritto delle Relazioni Industriali [22]. Uno scritto che si segnala non tanto per lo sforzo di rettificare alcune inevitabili forzature contenute nel Libro Bianco sul mercato del lavoro dell’ottobre 2001, di cui Marco è stato il principale artefice ed estensore, quanto piuttosto per la testimonianza di europeista e federalista convinto. Come Mancini, anche Marco era convinto che società più giuste – o almeno ‘decenti’ – non avrebbero potuto realizzarsi se non in un contesto più ampio, quale appunto quello europeo, e in una prospettiva giuridico-istituzionale di tipo federalista. E il tempo, come al solito, gli renderà ragione anche per questo profilo.
Da questo punto di vista, l’impegno di Marco è consistito nel dimostrare, soprattutto negli ultimi anni, che, contrariamente a quanto si è soliti pensare, per dare corpo a una riforma complessiva del diritto del lavoro non sono certo le idee e la progettualità a mancare. ‘Ciò che invece ancora non è avvenuto’ – scriveva recentemente [23] – ‘è il superamento di veti e di pregiudiziali ideologiche che rallentano inutilmente, rispetto al processo di evoluzione in atto, le riforme necessarie a evitare fenomeni di destrutturazione e deregolamentazione strisciante del mercato del lavoro: fenomeni che, a loro volta, rappresentano al tempo stesso causa ed effetto di una fiorente economia sommersa di dimensioni addirittura due o tre volte superiori a quella presente negli altri paesi’.
E’ proprio per il desiderio di dimostrare che non mancano idee semplici ed efficaci per promuovere le necessarie riforme del diritto del lavoro che Marco aveva accettato, nel pieno del suo coinvolgimento con il Governo di centro-destra, di collaborare ancora una volta con Tiziano Treu, raccogliendo e ordinando i principali progetti di modernizzazione del mercato del lavoro che avevano caratterizzato, nell’arco degli ultimi sette anni, una intensa stagione progettuale che li ha resi, pur nella diversità dei ruoli e delle attitudini, autentici protagonisti delle politiche del lavoro del nostro Paese. ‘Una esperienza davvero affascinante e irripetibile’ – scrive ancora Marco [24] – ‘connotata da importanti successi (come nel caso della Legge 24 giugno 1997, n. 196, sulla incentivazione della occupazione)’ [25], ‘ma anche da inevitabili compromessi (come nel caso della disciplina del lavoro del socio di cooperativa) e talvolta persino da amare delusioni (come nel caso della vicenda della proposta di legge sulle 35 ore, che ha condotto alla prematura conclusione della esperienza di governo della coalizione guidata da Romano Prodi)’.
Di Marco innovatore e riformista molto è stato detto e scritto, e non sempre a proposito. Qui sono i suoi numerosi lavori a parlare per lui [26], e ogni parola in più sarebbe davvero ridondante. Non appena il clamore e la retorica di questi primi mesi cesseranno, sono convinto che verrà fatta piena giustizia al suo pensiero e alla sua progettazione. Le resistenze al cambiamento e alla modernizzazione – così come il falso problema della revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – non potranno impedire l’emersione di quanto di buono e illuminato c’era nelle proposte di Marco.
Da osservatore interno vorrei contribuire piuttosto a mettere in luce un aspetto del carattere innovatore di Marco: l’estrema facilità di dialogo, che lo portava a entrare subito in sintonia con le persone più disparate, a partire dal Principe di turno sino al più giovane dei nostri studenti modenesi. Marco era innovatore a partire dallo stile: elegante, certo, ma anche semplice, diretto, immediato, senza barriere e preclusioni mentali o culturali. Lo ricordo ancora nelle pause delle sue lezioni durante le cicliche Summer Schools del Sinnea International, seduto su un muretto o su un tavolo, mangiare un panino con attorno i suoi studenti. Questa sì che per me è stata una vera innovazione. Il terreno ideale per creare un sodalizio umano, prima ancora che professionale, e poi un gruppo nel vero senso del termine, al di là di e ancor prima di ogni logica accademica o di Scuola.
Con il tempo ho anche imparato ad apprezzare la semplicità di linguaggio e la sua naturale capacità di sintesi. Due doti fondamentali per governare i processi di innovazione delle tecniche regolatorie per i mercati del lavoro del XXI secolo e che pur tuttavia, nelle prime fasi della nostra collaborazione, avevo largamente sottovalutato. Pensavo fermamente infatti – come una certa sovrabbondanza di argomentazione ancora oggi lascia trasparire dai miei scritti – che al giurista si addicesse necessariamente uno stile complesso e particolareggiato, tale in ogni caso da mostrare al lettore nel dettaglio, anche mediante un abbondante utilizzo di note bibliografiche, i molteplici percorsi di lettura e le faticose riflessioni retrostanti a ogni singola frase, a ogni singola idea. Mi sbagliavo. Lo stile essenziale e limpido di Marco era espressione di una concezione illuminata dell’intellettuale, quale tecnico al servizio della società. Marco era vero innovatore perché andava dritto verso la soluzione dei problemi. L’apparato giuridico-concettuale non era per lui un freno, un ostacolo al dialogo, ma solo un punto di partenza obbligato nella sua opera di giurista impegnato ‘a progetto’.
Come innovatore Marco è stato innanzitutto, prima ancora che un riformista progettuale, un grande comunicatore e un grande mediatore. La sua facilità di dialogo con i protagonisti politici e delle relazioni industriali nasceva proprio dalla immediatezza e semplicità di linguaggio, dalla umiltà con cui, pur da giurista e consulente navigato, ancora oggi si accostava all’interlocutore di turno o al lettore, vuoi si trattasse di scrivere un Editoriale oppure un saggio di dottrina vuoi si trattasse di pervenire alla stesura di una bozza di legge o di accordo collettivo. Complessi progetti di riforma e sofisticate proposte legislative venivano mirabilmente rese comprensibili anche ai non addetti ai lavori. Per questo Marco divenne, in poco tempo, una delle colonne de Il Sole 24 Ore. Alla proverbiale affidabilità e capacità di prevedere gli argomenti che di lì a poco sarebbero stati al centro del dibattito politico e sindacale, Marco sapeva anche unire uno stile sobrio e diretto, che aiutava a comprendere i problemi e a dialogare. Artificiose disquisizioni concettuali e analitiche ricostruzioni storico-giuridiche non facevano per lui e per il suo modo di agire pragmatico ed essenziale.
E’ per questo che nel 1999 Marco venne chiamato a Milano per lanciare un coraggioso esperimento riformatore, poi confluito nel noto Patto ‘Milano Lavoro’; circostanza questa che gli consenti, peraltro, di instaurare un fecondo rapporto anche con gli studenti milanesi grazie all’incarico di insegnamento del diritto comunitario del lavoro ricoperto per il Master Europeo in Scienze del lavoro. Era stato chiamato a Milano perché si faceva capire e non si tirava mai indietro, sempre pronto a sperimentare e innovare. E’ anche per questo che Marco è stato uno dei pochi giuslavoristi italiani a comunicare agevolmente non solo con i colleghi stranieri ma anche con le più prestigiose istituzioni europee e internazionali: dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro alla Commissione Europea, dalla Fondazione Europea di Dublino all’Aspen Institute.
Innovatore era anche nella gestione delle sue Riviste (Diritto delle Relazioni Industriali e, più recentemente The International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations), e delle sue Associazioni (dal 1994 l’Associazione Italiana di Studio delle Relazioni Industriali e, dal 2000, anche ADAPT, una associazione nata dal nulla e che in poco tempo vide la adesione di numerose imprese e di tutte le principali associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, con la sola eccezione della CGIL). Ma prima ancora nella gestione del gruppo: nella sua straordinaria capacità di dare un obiettivo preciso a tutti e di far sentire importanti ragazzi giovanissimi che altro non chiedono se non un sogno e un ideale per cui vivere. Marco non era solo un mentore, ma da eccezionale maieuta tirava fuori il meglio di ognuno di noi.
Nonostante alcune impressioni che vengono dall’esterno [27], e che pure in parte possono essere giustificate, Marco non era certo l’artefice di un progetto di rivisitazione del diritto del lavoro italiano da realizzare ‘nel chiuso di un Ministero, senza aprire un dibattito che coinvolga gli addetti ai lavori’. Lavorando gomito a gomito con lui posso testimoniare una energia inesauribile, frutto di una vera e propria passione o vocazione, che, dalla sua Bologna, lo portava instancabilmente a viaggiare, lungo la direttrice Roma-Modena-Milano-Bruxelles, per tessere con certosina pazienza una rete di consensi attorno al progetto di modernizzazione del diritto del lavoro, e questo senza mai dimenticare un appuntamento accademico e l’impegno didattico. Oltre a essere presente nella vita di Facoltà, Marco era uno di quei giuristi che non esita a girare per convegni e che non ha mai mancato a un appuntamento nazionale o internazionale di rilievo. Il suo progetto riformatore nasceva dunque da un intenso – anche se non sempre fecondo – dialogo con tutti gli addetti ai lavori. La composizione dell’AISRI e di ADAPT sono una chiara dimostrazione di tutto ciò.
Nessun consenso tacito, dunque, tra ‘consigliere del principe’ e ‘principe’, volto a tenere alto il tono se non l’obiettivo delle riforme, fosse solo per il gusto della provocazione intellettuale, per l’ebbrezza del potere o anche per l’innegabile ritorno di immagine, come pure molti hanno detto e pensato. Perché Marco, come scriveva di Federico Mancini pensando anche a se stesso, non era il ‘giurista del principe’, ma, come detto, ‘un giurista di progetto’[28]. E’ sufficiente confrontare il Libro Bianco con l’immensa progettazione elaborata nell’arco della collaborazione con il Governo Prodi [29] per rendersi conto della estrema coerenza di Marco. Come Federico Mancini, anche Marco Biagi ha messo la sua spada al servizio di progetti in cui credeva, giusti o sbagliati che fossero, e non tanto di una persona e tantomeno di un partito politico o di un Governo.
Anche Marco ha dunque sempre lavorato ‘a progetto’ – facilitato in questo dalla estrema fragilità degli interlocutori istituzionali e politici che di volta in volta si rivolgevano a lui – senza mai cedere alla tentazione di compiacere il potente di turno. Mai, nell’opera di elaborazione progettuale, abbiamo subito un condizionamento. E se un elaborato non funzionava se ne preparava subito un altro, con la solita pazienza, animati da una passione e da un gioioso divertimento che non ho trovato in nessun altro ambiente di lavoro.
Anche in Università Marco aveva una predilezione particolare per le cose concrete e innovative: la responsabilità del servizio dell’Orientamento al lavoro di Ateneo è stata la sua collocazione naturale. L’8 aprile scorso l’Università di Modena e Reggio Emilia e tutte le parti sociali locali hanno formalmente sottoscritto un accordo sulla piena occupabilità, che Marco aveva messo a punto con il Direttore Amministrativo e il Rettore proprio nel pomeriggio del 19 marzo, poco prima di fare ritorno in Facoltà, per una delle periodiche riunioni organizzative in cui venivano discussi i programmi della settimana, e di lì recarci tutti insieme alla stazione dei treni per fare ritorno alle nostre case di Bologna.
V. Marco Biagi moderno
Progettare per modernizzare, questo era l’obiettivo di Marco [30]. Pur senza abdicare al rigore scientifico, Marco non è mai stato ossessionato dalla ricerca della perfezione espositiva. Ciò che invece lo ossessionava, in forme per certi versi maniacali, era l’anelito verso la tempestività, la cura del dettaglio, la bontà del progetto complessivo. La sua modernità sta tutta nella sua essenzialità e concretezza. Marco non amava l’avvitamento su se stessi, né tantomeno si compiaceva di ciò che era stato sino ad allora realizzato, che pure era tanto. Mai una pausa, mai un festa, mai un meritato riposo. La sua perenne insoddisfazione a volte ci irritava. Ma era questo il suo modo di essere moderno: aveva cioè accolto fino in fondo la sfida che ci lancia ogni giorno la freneticità e irrazionalità dei tempi moderni.
Marco non governava pienamente la tecnologia e la rete, ma ne aveva ben presto intuito le enormi potenzialità. Era lui a indicarci l’utilizzo più efficace e a guidare il ritmo di lavoro mio e del gruppo. L’inteso rapporto con i giovani, il quotidiano confronto con gli studenti americani del Dickinson, l’amore per i due figli, lo rendevano uomo particolarmente attento ai cambiamenti sociali e magistrale interprete degli sviluppi regolatori dei processi socio-economici in atto. La sua predilezione per le soft-laws e il suo entusiasmo per l’Europa e il federalismo sono chiara indicazione di una rinnovata concezione del diritto quale tecnica di regolazione sociale e di gestione del conflitto in società post-moderne e complesse.
Come Mancini anche Marco era precursore della attuali tendenze giuslavoristiche e cercava con una umiltà straordinaria di mettere la sua visione del futuro al servizio di un progetto. Sia chiaro: Marco, come tutti noi, era un concentrato di passioni e di impulsi buoni e cattivi, e forse era anche ambizioso, ma è certo che applicasse con vera umiltà il metodo che aveva elaborato e che ci aveva trasmesso. La meticolosità con cui ancora oggi accumulava il materiale di studio, e impostava ogni lavoro, anche il più piccolo e insignificante, dimostrano ai miei occhi un atteggiamento tipico del giovane studioso che avverte pienamente i limiti del proprio impegno scientifico e cerca di porvi rimedio. Non so dire se fosse vero, ma spesso mi confidava l’intenzione di isolarsi nella sua Pianoro e di tornare come ai vecchi tempi a fare lo studioso a tempo pieno.
E’ ancora una volta la sua modernità a spiegare la difficoltà di dialogo con parte della dottrina e, soprattutto, con la CGIL. Marco si rammaricava della sostanza, più che dei toni, spesso violentemente ingiustificati, come dimostra la scelta della CGIL di non partecipare più ad alcuna iniziativa convegnistica da lui organizzata e, ancor prima, l’uscita improvvisa della stessa CGIL da una sede di dibattito scientifico come l’Associazione Italiana di Studio delle Relazioni Industriali. Non sta a me dire chi tra Marco e i suoi oppositori avesse ragione; e apprezzo anche molte delle ragioni storiche e delle argomentazioni politiche che spingono la CGIL ad opporsi a un certo tipo di cambiamento. (Anche se ciò non era vero, perché mai ho preso in sua presenza una posizione politica netta, Marco spesso mi definiva il suo ‘collaboratore di sinistra’). So però che il rifiuto del confronto, l’antagonismo a prescindere, la mancanza di rispetto per l’avversario sono l’antitesi non solo della modernità, ma anche di quei valori ‘naturali’ che fondano una società democratica e pluralista e che ci aiutano a rendere un poco più ‘decenti’ le diverse forme possibili di convivenza tra gli uomini.
Le attuali frontiere della modernità erano per lui lo ‘Statuto dei lavori’, la riforma in senso federale dello Stato, le tecniche di fidelizzazione dei lavoratori. Rispettivamente a me, a Riccardo Salomone e ad Alberto Russo passa ora il testimone di quelli che, da tempo, ci aveva indicati come i nostri prossimi impegni di riflessione scientifica al servizio del progetto. A Carlotta Serra erano invece stati affidati, al momento, alcuni studi preliminari sulla nuova disciplina del collocamento, soprattutto con riferimento al lavoro agricolo, mentre a Olga Rymkevitch, accanto a un tentativo di ricostruzione della recentissima codificazione russa in materia di lavoro, era stato affidato lo studio delle politiche di immigrazione in Europa, altro tema di particolare rilievo per lo sviluppo di una società oramai multietnica.
VI. Marco Biagi protagonista
Anche Marco è stato dunque un protagonista dei nostri tempi, non certo uno spettatore. In un arco di tempo relativamente breve ha compiuto opere di impressionante valore e importanza. Lo capiremo meglio nei prossimi anni, quando la sua progettazione sarà adeguatamente valorizzata, anche se già molti, in taluni casi con vistose retromarce, hanno puntualmente sottolineato il suo intenso e fecondo dialogo con le istituzioni e le autorità politiche a ogni livello: comunitario, nazionale e locale.
Quello che a me preme sottolineare è che Marco Biagi è stato protagonista della nostra vita. L’incontro con lui ci ha profondamente cambiati e ha lasciato un seme che presto germoglierà. Sicuramente continuare in questa opera di ‘protagonisti’, ognuno con le proprie inclinazioni e specificità di impegno, è la risposta che dobbiamo dare alla sua scomparsa, e questo a maggior ragione per la brutalità e assurdità con cui una vita ancora giovane è stata strappata all’affetto dei suoi cari e dei suoi allievi. Come ebbe a scrivere nel ricordo di Federico Mancini [31], ‘certo è questo che il Maestro si sarebbe aspettato da tutti noi’.
Non solo. Credo che la ‘cometa’ Marco Biagi debba aiutarci a capire anche altro, ben oltre il diritto e la modernizzazione del diritto del lavoro in particolare. Spero davvero che il suo sacrificio non sia stato inutile per noi, come persone, come uomini, troppo spesso condizionati da miserie ed egoismi che non ci aiutano ad apprezzare fino in fondo la bellezza della vita e delle persone che ci circondano e che ci vogliono bene. Vorrei davvero che la malinconia che oggi colora tutte le nostre espressioni del volto si rigenerasse e trasformasse in un impegno concreto, umile, a rendere ancora una volta un poco più decente la nostra vita e quella di quanti ci accompagnano in questo misterioso, troppo spesso crudele, percorso.
[1] Ebbi in proposito a scambiare con lo stesso Marco alcune battute – che allora mi apparvero scherzose – in occasione della preparazione del suo scritto in ricordo di Federico Mancini, presentato nel marzo 2001 presso la Hopkins (cfr. M. Biagi, Federico Mancini: un giurista ‘ progettuale’, The Johns Hopkins University Bologna Center, n. 8/2001, qui p. 3). A suo dire, peraltro, ogni forma di commemorazione mi sarebbe stata preclusa per limiti di età stante la sua ferma intenzione – come allora mi disse, e come più volte mi ribadì in seguito – di occuparsi in prima persona del nostro Centro Studi modenese ancora per i prossimi vent’anni e se possibile anche più.
[2] La bicicletta: un altro rimpianto. E’ stata quella della bicicletta una passione che avevamo in comune, ma mai abbiamo pedalato assieme.
[3] Apparso sul n. 14/2002 de L’Espresso.
[4] Proprio a Massimo D’Antona è peraltro legato uno dei più bei ricordi che ho di Marco. Ancora impressa nella mia memoria è la semplicità e discrezione con cui Marco – durante una delle sessioni del VI congresso europeo della Associazione internazionale di Diritto del lavoro e della Sicurezza sociale (Varsavia, 13-17 settembre 1999), al di fuori di ogni protocollo e commemorazione ufficiale (che non era stata prevista in quella circostanza) – seduto al centro del tavolo dei relatori, con a fianco Paul Davies a sinistra e Alain Supiot a destra, chiese improvvisamente ai partecipanti un minuto di raccoglimento per ricordare Massimo D’Antona. Un gesto spontaneo e del tutto gratuito, davanti a una platea composta di soli stranieri (con la sola eccezione di Matteo Dell’Olio e di un suo giovane collaboratore) per i quali si era già spenta l’eco del nome e della storia di D’Antona.
[5] M. Pedrazzoli, Marco Biagi e le riforme possibili: l’ostinazione del progetto, in q. Rivista., n. 2/2002.
[6] Come ha perfettamente intuito Marcello Pedrazzoli, op. cit.
[7] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 1984. La dedica ha una storia che ho appreso solo di recente e che lega Marco a Marcello Pedrazzoli, Gian Guido Balandi e Luigi Mariucci. Sul n. 4/1999 di Lavoro e Diritto Gian Guido Balandi scrive: ‘Quando noi «banda dei quattro», alla metà degli anni ‘ 80 vincemmo il concorso a cattedra, (Federico Mancini) regalò a ognuno un libro che con precisione richiamava tratti della nostra personalità. Arrivò con i libri intonsi e a ognuno appose una lunga, affettuosa e brillante dedica, che aveva attentamente preparato, trascrivendola da un foglietto redatto a matita e gomma con la sua fine grafia’.
[8] M. Biagi, Federico Mancini: un giurista ‘ progettuale’ , cit.
[9] E’ questa la scansione dei paragrafi attorno a cui era stato costruito il ricordo di Mancini. Cfr. ancora M. Biagi, Federico Mancini: un giurista ‘ progettuale’ , cit.
[10] Cfr., in particolare, M. Biagi, Rappresentanza e democrazia in azienda. Profili di diritto sindacale comparato, Maggioli, 1990, qui p. 3.
[11] M. Biagi, Federico Mancini: un giurista ‘ progettuale’ , cit., 5.
[12] M. Biagi, Il nuovo lavoro a termine. Commentario al D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Giuffrè, 2002.
[13] R. Sacco, Introduzione al metodo comparato, Giappichelli, 1990, 18.
[14] Cfr., in proposito, T. Treu, L’internazionalizzazione dei mercati: problemi di diritto del lavoro e metodo comparato, in Studi in onore di R. Sacco, Giuffrè, 1994, vol. I, 1117, che ha rappresentato una sorta di manifesto culturale per quanti sono stati impegnati nelle attività del Centro Studi modenese di Marco.
[15] Sviluppare la competitività e la giustizia sociale: le relazioni fra istituzioni e parti sociali, Atti dell’XI Congresso Mondiale dell’Associazione Internazionale di Relazioni Industriali, Bologna 22-26 settembre 1998 (Sinnea, Bologna, 1998).
[16] Cfr. la Prefazione a M. Biagi, Rappresentanza e democrazia in azienda ecc., cit.
[17] Un elenco si trova al sito internet del Centro Studi modenese: http://www.economia.unimo.it/Centro_Studi_Intern/home.html
[18] Così, giustamente, R. Sacco, Introduzione al metodo comparato, cit., 23.
[19] M. Biagi, Federico Mancini: un giurista ‘ progettuale’ , cit., 4.
[20] Non lo aveva invece affascinato il mio primo studio monografico, quello su Problemi e prospettive in tema di risoluzione e recesso nel contratto collettivo di lavoro (pubblicato sulla Collana del Dipartimento di Economia Aziendale dell’Università degli Studi di Modena, n. 22/1992) iniziato a cavallo tra il 1990 e il 1991 sotto la guida di Giorgio De Nova. Un tema a me particolarnmente caro, ma da Marco considerato troppo tradizionale e circoscritto per una prima vera monografia.
[21] Cfr. M. Biagi, Progettare per modernizzare, in T. Treu, Politiche del lavoro. Insegnamenti di un decennio, il Mulino, 2001, 269-280 e anche M. Biagi, M. Tiraboschi, Le proposte legislative in materia di lavoro parasubordinato: tipizzazione di un tertium genus o codificazione di uno Statuto dei lavori?, in Lav. Dir., 1999, n. 4.
[22] M. Biagi, Il lavoro nella riforma costituzionale, in corso di pubblicazione sul n. 2/2002 di Diritto delle Relazioni Industriali.
[23] Cfr., per una sintesi, M. Biagi, Progettare per modernizzare, cit., 270.
[24] Cfr., per una sintesi, M. Biagi, Progettare per modernizzare, cit., 271.
[25] Ampia testimonianza di questo ‘successo’ si trova nel ‘commentario dall’interno’ della Legge n. 196/1997 dal titolo Mercati e rapporti di lavoro, curato da M. Biagi per i tipi di Giuffrè (Milano, 1997). Anche questa una vera e propria innovazione di metodo nel panorama scientifico italiano e non solo, visto che – come si legge nella prefazione firmata dallo stesso Marco Biagi – ‘per la prima volta una legge viene valutata e discussa da autori che appartengono all’Amministrazione che ha provveduto anche al lavoro preparatorio della stessa. Non solo, ma gli autori sono al tempo stesso gli operatori del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale impegnati nell’attuazione e nella gestione della legge medesima’.
[26] Nel momento in cui sto scrivendo questo ricordo, l’idea su stiamo lavorando con la famiglia e il generoso sostegno del ‘suo’ editore, Gaetano Giuffrè, è quella di affidare a una istituenda Fondazione ‘Marco Biagi’ il compito di raccogliere, con il sostegno di AISRI, AIDLASS, Istituto Cicu di Bologna e Centro Studi Internazionali e Comparati ‘Marco Biagi’ dell’Università di Modena e Reggio Emilia, la raccolta di tutti gli scritti di Marco, dimodo che siano essi a parlare per lui.
[27] Cfr., per esempio. F. Carinci, Dal Libro Bianco alla Legge delega, in Dir. Prat. Lav., n. 11/2002, 732.
[28] M. Biagi, Federico Mancini: un giurista ‘ progettuale’ , cit., 9.
[29] Vedila in T. Treu, Politiche del lavoro. Insegnamenti di un decennio, cit., 269-395.
[30] Ancora M. Biagi, Progettare per modernizzare, cit.
[31] M. Biagi, Federico Mancini: un giurista ‘progettuale’, cit., 11.