Una delle iniziative nel quadro delle celebrazioni del XV Anniversario dell’uccisione di Marco Biagi ha per oggetto la presentazione – il 15 marzo nella solennità del Senato – di un Libro bianco sul welfare della persona, predisposto dall’Associazione Amici di Marco Biagi (di cui è animatore e presidente Maurizio Sacconi) e redatto in collaborazione con Adapt (il Centro Studi fondato dal giurista bolognese). E’ un documento orientato ai futuri scenari demografici, occupazionali, economici e sociali dell’Italia e dell’Europa. Il che è molto importante in un momento in cui sta montando la marea maleodorante del ‘’sovranismo’’. E’ il caso, allora, di ricordare Marco per quello che fu: un convinto sostenitore di una dimensione europea, non solo di carattere istituzionale, ma anche culturale e giuridica. Nella materia, Marco va annoverato tra i precursori perché vi si dedicò a lungo nei ruoli ricoperti negli organismi tecnici della Comunità. Anche nella qualità di studioso, aveva colto, tra i primi, l’importanza della ‘’dimensione sociale europea’’ nella prospettiva dell’evoluzione del diritto del lavoro italiano.
Già nel lontano 1989, Biagi era stato relatore in un Seminario internazione, svoltosi nel settembre a Francoforte e dedicato al diritto delle relazioni industriali in vista dell’Europa del 1992 (Trattato di Maastricht). In quell’occasione, Marco si era cimentato nel tentativo “di identificare le materie che, in futuro, più di altre potrebbero essere oggetto di armonizzazione in sede comunitaria e di ricercare il possibile ruolo italiano”. Il professore bolognese avvertiva immediatamente che “lo sforzo di essere europeo è per un giurista, figlio solitamente di un’educazione ben poco orientata verso l’internazionalizzazione, un compito più arduo rispetto agli altri scienziati sociali”. Ma sentiva, comunque, il dovere (come ebbe occasione di dimostrare negli anni successivi) di non sottrarsi “ad un impegno culturale davvero avvincente”. Ma quale e di che tipo avrebbe potuto essere il contributo dell’Italia alla definizione di un diritto del lavoro europeo ? Marco Biagi era pienamente consapevole di due seri handicap del nostro Paese: un ritardo strutturale (ora in parte superato) nel recepire le Direttive europee (per altro appesantendone, nei provvedimenti di recepimento, i vincoli e i limiti a carico delle imprese); uno scarso interesse per le problematiche della partecipazione dei lavoratori con le quali, invece, l’Europa si era cimentata da tempo, sia pure senza approdi conclusivi. Secondo Biagi, essendo quello italiano un sistema altamente informale (a partire dalle regole della rappresentanza e della rappresentatività) “perderebbe davvero il suo tempo chi volesse giudicare il diritto italiano del lavoro (specie quello collettivo) tenendo conto solo dei testi legislativi”. La ricchezza della contrattazione collettiva era tale – proseguiva il professore – da costituire un insieme di regole davvero ampio e comunque sufficiente per garantire un alto livello di tutela dei lavoratori italiani. “Tuttavia, sono proprio le parti sociali – aggiungeva Marco – a rendersi conto che se l’informalità può rappresentare flessibilità nella regolamentazione dei rapporti collettivi di lavoro, possono sopraggiungere situazioni in cui essa si traduce in instabilità e quindi in un elemento di debolezza del sistema”.
In sostanza, se l’informalità delle relazioni industriali italiane non aveva accusato per molti anni segni di logoramento (nonostante l’assetto estraneo al disegno costituzionale a cui era approdato il modello di relazioni industriali) fino a quando era iniziata la crisi dell’unità d’azione delle tre più importanti organizzazioni sindacali, già alla fine degli anni ’80 Biagi denunciava, nel Seminario di Francoforte, l’esigenza di innovazioni nei principi regolatori dei rapporti collettivi in diverse aree: dall’elezione delle rappresentanze dei lavoratori sul luogo di lavoro, dalle procedure di raffreddamento dei conflitti ad una vera regolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero nei servizi essenziali. Ma l’interesse di Biagi tornava subito all’idea forza della flessibilità nella regolamentazione dei rapporti contrattuali e alla riduzione del “nucleo protettivo del lavoro, specie nelle sue aree più obsolete ed esposte alle sollecitazioni dei mercati”. E ancora a proposito del dialogo sociale che, secondo Biagi, “dovrebbe essere inteso …..come una fase procedurale in cui le parti raggiungono intese che facilitano ….una prospettiva che respinge una prassi unicamente di tipo regolatorio-legislativo e che opta decisamente per un’intelligente utilizzazione congiunta di interventi pubblici promozionali…e di intese sociali a livello nazionale”.
E’ possibile riconoscere, dunque, le radici di un pensiero moderno del professore bolognese che venne sviluppato, anni dopo, nel Libro bianco, le cui proposte hanno costituito – in via di fatto nonostante le odiose critiche con cui venne accolto – una guide line per la riforma delle relazioni industriali. Ma anche sul piano del diritto del lavoro in senso stretto quella ‘’visione’’ europea (che fu il suo benchmarking) consentì a Marco, in qualità di consulente dei ministri del Lavoro, di rielaborare proposte e iniziative che, in quei tempi, erano state attuate nella stragrande maggioranza dei Paesi sviluppati, perchè rispondevano – non già al capriccio di un governo ostile o ai disegni perversi delle forze della reazione in agguato – ma a tentativi complessi di dare risposte a precise ed ineludibili esigenze dell’economia, della produzione e dell’organizzazione del lavoro. La capacità di guardare oltre i confini (non solo quelli fisici tra gli Stati, ma anche quelli che delimitano – e soffocano – le diverse culture, anche giuridiche) è stato il filo rosso dell’attività di Marco Biagi che prese le mosse dal pacchetto Treu del 1997 ed ancor prima dal Patto per Milano. Tra quella legge e la successiva del 2003 intitolata a Marco Biagi (in onore del suo sacrificio) esiste una effettiva continuità il cui merito è da attribuire all’opera intelligente e colta di Marco Biagi che si avvalse parecchio, come consulente quasi plenipotenziario di Roberto Maroni, dell’esperienza compiuta insieme con Tiziano Treu di cui Marco era stretto amico e fidato collaboratore da decenni.