Sembra davvero singolare che qualcuno in buona fede si meravigli della decisione della Fiat di applicare a tutti i dipendenti del gruppo le regole sindacali decise prima per Pomigliano, poi per Mirafiori. Era tutto già scritto nel momento in cui la Fiat aveva scelto di uscire da Confindustria. Sarebbe stato strano il contrario, che l’azienda lasciasse Confindustria, ma continuasse ad applicare a parte dei suoi dipendenti le regole proprie della confederazione che aveva appena abbandonato. E che aveva abbandonato proprio per non applicare più quelle regole.
Nessuna meraviglia, dunque. Che poi Marchionne abbia torto o ragione a compiere questo passo è altra cosa. Tutti sanno che il contrattone dei metalmeccanici non funziona da anni, se non altro perché si applica a un milione e mezzo di lavoratori, troppi e di aziende troppo diverse tra loro per funzionare. Specialmente perché si tratta di un contratto “pesante”, che entra nei particolari, non lascia spazio di gestione a chi vuole cambiare. O non lo lasciava, perché dopo l’accordo di giugno 2011 tutti i sindacati, anche la Cgil, sono d’accordo sulla possibilità di adattare alle esigenze aziendali le regole del contratto nazionale.
Il rebus sul quale occorre forse interrogarsi non è allora se e fino a che punto un’azienda debba chiedere e ottenere regole particolari, ma chi abbia ragione tra Sergio Marchionne ed Emma Marcegaglia. Il primo pensa che una grande azienda come la Fiat (ma perché una più piccola allora no?) debba avere il diritto di avere regole sue, anche in contrasto con l’ossatura del sistema di relazioni industriali in essere. Marcegaglia ritiene invece che adattamenti siano giusti, ma solo all’interno di un sistema regolato e codificato, dove tra imprese e sindacati esistano rapporti di collaborazione in un clima di reciproca accettazione e, se possibile, reciproca stima. Non si tratta di arrivare a forme di partecipazione, che pure in altri paesi esistono e funzionano alla grande, con risultati concreti di rilievo. Si tratta solo di sapere se il sistema di relazioni industriali finora portato avanti sia degno di merito oppure no.
Marchionne pensa di no. Propugna però un sistema che forse vale per la Fiat, ma che, applicato in grande, a tutto il paese, porterebbe a uno stravolgimento generale delle regole e, forse, a disastri. Cosa accadrebbe se quelle regole generali non esistessero più, come appunto vorrebbe la Fiat? La regola sarebbe il Far West, dove vige la legge del più forte, dove non c’è ordine, dove chi può governa. E non sarebbero sempre le imprese a governare, anche se sono più forti del singolo lavoratore. Non fosse che perché i sindacati esistono proprio per equilibrare i poteri altrimenti sperequati.
Ma, cadendo le regole delle relazioni industriali che l’Europa si è data in questi anni, cadrebbe anche qualsiasi possibilità di concertazione. Bene, diranno i detrattori di questo sistema di dialogo, non pensando però non solo ai benefici che proprio il nostro paese ha avuto dalla concertazione in momenti difficili del passato, ma più in generale alla bontà di risolvere alcuni grandi e piccoli problemi della produzione assieme, mettendo in comune le esperienze, le capacità, l’inventiva, la determinazione. La concertazione è una carta in più in mano a chi governa, che può fare anche tutto da solo, e ne abbiamo avuto la prova in questi anni appena trascorsi, non credo gloriosi, o può giovarsi dell’intelligenza e della capacità di lavorare assieme alle grandi forse sociali, che rappresentano interessi, ma hanno saputo dimostrare di avere coscienza alta degli interessi generali del paese e che, in ultima analisi, aiutano a governare società complesse come quelle in cui viviamo.
Sono due strade diverse, sulla prima si è incamminato Marchionne, dall’altra si attardano Confindustria, Cgil, Cisl, Uil. Capire chi ha ragione forse vale la salvezza di questo paese.
Massimo Mascini