Primo giugno 2018, esattamente 14 anni dopo quel 1° giugno 2004 in cui Sergio Marchionne fu nominato Amministratore delegato del gruppo Fiat. E’ questo l’appuntamento che, dal Salone dell’auto di Detroit, lo stesso Marchionne ha dato per la presentazione del secondo piano quinquennale di Fca, il gruppo nato nel 2009 dalla fusione della stessa Fiat con la Chrysler.
Il primo piano quinquennale di Fca fu lanciato a Auburn Hills, nel Michigan, il 6 maggio del 2014. Il secondo piano sarà invece presentato a Balocco, in provincia di Vercelli, ove ha sede il Centro sperimentale dell’Alfa Romeo.
Un intrecciarsi, quasi un rincorrersi di date e luoghi simbolici. Ma, al di là delle scelte comunicative del manager dei Due Mondi, quella del prossimo 1° giugno sarà senz’altro un’occasione significativa per Fca e per tutti quelli che sono interessati a capire le tendenze attuali del mondo dell’auto. In primo luogo, infatti, Marchionne dovrà chiarire quali saranno gli obiettivi del gruppo automobilistico da lui creato di qui al 2022. In secondo luogo, potrà fare un bilancio esaustivo sui risultati raggiunti nel primo piano. In terzo luogo, potrà fare un bilancio dei 14 anni di lavoro che ha passato al vertice di una delle maggiori compagnie automobilistiche del mondo. Un bilancio, quest’ultimo, che, in buona sostanza, sarà anche un saluto perché, come è stato più volte annunciato, Marchionne resterà alla guida effettiva della Fca solo fino alla fine dell’anno appena iniziato; e poi, forse solo formalmente, fino alla primavera 2019, quando sarà presentato il suo ultimo bilancio annuale, quello, appunto, del 2018.
Anche se bisognerà dunque aspettare di qui al 1° giugno per poter fare un primo bilancio dell’operato di Marchionne nei 14 anni che ci stanno alle spalle, e per poter commentare le prospettive che si aprono davanti a Fca, l’accumularsi di informazioni sulla stessa Fca che si è prodotto in occasione dell’apertura del Naias (North America International Auto Show) di Detroit consente già di cogliere alcune tendenze. Marchionne, infatti si è riservato due occasioni sia per esternare le sue convinzioni che per delineare i suo programmi. Prima, un’intervista esclusiva con l’agenzia Bloomberg; poi una conferenza stampa cui hanno partecipato anche gli inviati di alcune fra le maggiori testate giornalistiche italiane.
Il primo punto, già affrontato dal Diario del lavoro, è che Marchionne ha dichiarato che Fca non cerca più un partner con cui realizzare un’ulteriore fusione che consenta una crescita dimensionale del gruppo. Stiamo bene come stiamo, ha lasciato capire, e siamo ormai abbastanza forti per “fare da soli”. Dal che si deduce, anche, che Fca (con l’eccezione di Magneti Marelli, il cui spin-off è atteso per i prossimi mesi.) non intende fare neppure fusioni o cessioni parziali, come quelle di cui si era paralato nell’agosto del 2017, quando erano corse voci su possibili alleanze o cessioni che avrebbero coinvolto aziende cinesi.
Tutto ciò non significa che, sul piano teorico, Marchionne abbia pensato di dover rivedere quel ragionamento che aveva impostato già nel lontano 2008 e aveva poi ripreso alla metà del decennio in corso. Ovvero quel ragionamento in base al quale l’esistenza di un numero eccessivo di grandi competitori su scala mondiale portava a un cattivo uso dei capitali impiegati nell’industria dell’auto; cattivo uso cui si sarebbe potuto rimediare solo con un’opera di consolidamento, ovvero con una serie di alleanze e fusioni che consentissero di ridurre il numero dei competitori globali.
Rispondendo a una domanda posta da Mario Cianflone, inviato a Detroit dal Sole 24 Ore, Marchionne ha fatto, su questo punto, un’affermazione inequivocabile: “Sono sempre convinto che la mancanza di sinergie globali tra i costruttori sia un danno per l’industria dell’auto”. E ciò, aggiungiamo noi, è forse tanto più vero in un’epoca in cui tale industria, ancora secondo Marchionne, “o si reinventa, o è a rischio”. Il ragionamento era buono, lascia dunque capire Marchionne, ma come Fca non abbiamo incontrato interlocutori attenti o, comunque, disponibili. E quindi, ognuno per sé e Dio per tutti.
Ora bisogna ricordarsi che le ricorrenti voci su possibili alleanze, coinvolgenti in qualche modo il marchio Jeep, sono state considerate da molti osservatori come causa prima delle reiterate e repentine crescite del valore di Borsa delle azioni di Fca, verificatesi negli ultimi mesi.
Ma Marchionne, che nei mesi scorsi ha saputo destreggiarsi con grande abilità in simili circostanze, propone un’altra visione delle cose. In primo luogo, incassa la crescita del valore del titolo Fca come uno degli elementi che hanno dato al gruppo la forza, anche patrimoniale, di cui oggi può disporre. In secondo luogo, sostiene che ciò che la Borsa ha premiato è la costanza con cui il gruppo ha lavorato, lungo la strada tracciata col piano 2014-2018, puntando a raggiungere l’obiettivo primario del piano: l’azzeramento, entro il 2018, del debito gravante su Fca.
Ed eccoci al secondo punto: l’azzeramento del debito. Sia grazie al successo di alcuni modelli, in particolare del marchio Jeep, che grazie alla costante crescita del valore di Borsa del titolo Fca (pari a un notevole + 205% dal 2014 al gennaio 2018), Marchionne ritiene non solo effettivamente possibile raggiungere l’obiettivo del debito zero entro il corrente anno, ma ritiene anche possibile raggiungerlo con qualche mese di anticipo. Se ciò accadrà entro la fine di maggio, ha annunciato – con la sua attuale vena autoironica – che si presenterà a Balocco non più sfoggiando il suo arcinoto maglione a collo tondo, ma tornando a indossare giacca e cravatta.
Terzo punto: il rapporto con gli Stati Uniti. Ciò che Marchionne ha detto e fatto in Italia, ma anche negli Stati Uniti, è stato spesso politicamente sovrainterpretato sia dai suoi detrattori che dai suoi sostenitori immaginari. In realtà, ciò che ha motivato il modo di agire di Marchionne è stata la ricerca del successo industriale delle aziende da lui guidate. Perseguendo tale scopo, ha mostrato di avere grande capacità di cogliere le opportunità che si aprivano davanti alla sua azione di supermanager e quindi, anche, grande duttilità.
E’ rimasta memorabile la visita fatta da Barack Obama, a Detroit, nel luglio del 2010, quando l’allora Presidente degli Stati Uniti, al suo primo mandato, fece un discorso ai lavoratori riuniti all’interno dello stabilimento Chrysler di Jefferson North. Discorso concluso con il noto ringraziamento: “Grazie, Sergio, per il grande lavoro che stai facendo qui”. E certo, senza la politica di Obama, volta a salvare quell’industria dell’auto che il suo predecessore, George W. Bush, sembrava intenzionato a lasciare andare a ramengo, Marchionne non sarebbe riuscito nell’operazione di acquisire l’americana Chrysler a partire dall’italiana Fiat.
Adesso, però, il vento è cambiato e le elezioni sono state vinte, nel novembre del 2016, da uomo lontanissimo da Obama: Donald J. Trump. Niente paura. Marchionne si è rapidamente adattato al nuovo clima, quello segnato dallo slogan “Make America great again”. Il che non è poi difficilissimo visto che, ormai, non si tratta più di comprare un’azienda americana utilizzando le risorse e valorizzando il know how di un’azienda italiana, ma di agire, all’interno dell’ecosistema politico trumpiano, con un’azienda che, come il lato Chrysler di Fca, è insediata negli Stati Uniti con importanti stabilimenti.
Innanzitutto, Marchionne ha fatto quindi autocritica. Ha cioè dichiarato che, a suo tempo, la decisione di produrre in Messico i furgoni Ram Trucks è stato un “errore” perché “il 99% di questi modelli viene venduto negli Stati Uniti”. Ma adesso, ha aggiunto, tale errore è stato “corretto” con lo spostamento della produzione di tali veicoli nello stabilimento di Warren, sito nel Michigan. Stabilimento che sarà rammodernato con investimenti pari a 1 miliardo di dollari.
Ma non basta. Perché Marchionne si è sentito in dovere di condire questo annuncio con una riflessione politica. Infatti, per il Ceo di Fca la decisione di tornare dal Messico al Michigan va considerata come “un atto dovuto verso un Paese che ci ha dato fiducia anche con la riforma fiscale”.
E qui siamo al secondo passaggio della trumpizzazione dell’azione manageriale di Marchionne. Infatti, come abbiamo già notato nei giorni scorsi sul Diario del lavoro, Marchionne ha seguito prontamente l’esempio dato da Walmart, la grande compagnia di commercio al dettaglio che ha deciso di aumentare la paga oraria minima dei propri dipendenti da 10 a 11 dollari. E ciò grazie ai risparmi che la compagnia stessa potrà fare usufruendo dei vantaggi offerti dalla riforma fiscale voluta da Trump. Ed ecco che anche le retribuzioni dei dipendenti di Fca cresceranno grazie al dirottamento verso le loro buste-paga di una parte dei risparmi fiscali dovuti alla “generosità” fiscale di Trump; risparmi stimati da Marchionne in 1 miliardo di dollari all’anno. Nel secondo trimestre del 2018, ai circa 60.000 dipendenti di Fca sarà così erogato un bonus speciale pari a 2.000 dollari a testa.
Quarto punto: il modello di business. Dalle esternazioni fatte da Marchionne in occasione dell’apertura del Naias (lo show durerà fino al 28 gennaio), esce confermata una scelta strategica compiuta nel corso degli ultimi anni: lo spostamento verso l’alto della gamma dei modelli prodotti da Fca. Intendendo con spostamento verso l’alto non tanto una crescita del valore medio dei modelli abituali per la vecchia Chrysler, quanto del valore dei modelli classici della vecchia Fiat. La Fiat, infatti, è stata la regina delle utilitarie. Ma con le utilitarie, oggi come oggi, si guadagna poco. Per sostenere i costi crescenti dell’industria dell’auto, in questa fase di intensa trasformazione tecnologica e di innovazione complessiva dello stesso “prodotto auto”, occorre che i ricavi derivanti dalla vendita di ogni singolo autoveicolo siano più alti di quanto non fosse richiesto in passato.
La centralità della Jeep, già annunciata nel 2014 a Auburn Hills, è stata dunque confermata da Marchionne che, forse esagerando un po’, ha definito il successo dei veicoli a marchio Jeep “completamente inaspettato”. In ogni caso, è di questo che la Fca ha bisogno nel suo lato americano: veicoli come i suv Jeep e i pickup-truck Ram.
Quinto punto: e l’Italia?. Ecco, qui il discorso si presenta, almeno per adesso, come meno brillante. Appare infatti altamente improbabile che il 1° giugno prossimo, a Balocco, il Ceo di Fca possa annunciare di aver già raggiunto anche il secondo importante obiettivo strategico del piano 2014, ovvero la piena occupazione negli stabilimenti italiani. Anzi, per essere precisi, Marchionne ha detto che “non sa” se tale obiettivo sarà raggiunto neppure “entro l’anno”, ovvero entro la fine del 2018.
In pratica, par di capire, da un lato viene confermato che la salvezza della ex-Fiat è demandata alla capacità di produrre, anche nel nostro Paese, un gruppo di modelli collocati in una gamma più alta di quella prevista dalla tradizione della stessa Fiat. Tuttavia, almeno alcuni di questi modelli, compresi quelli a marchio Maserati e Alfa Romeo, non sono ancora arrivati alle linee di montaggio. L’obiettivo della saturazione degli stabilimenti italiani pare dunque rinviato al piano 2018-2022.
Non per caso, dunque, Michele De Palma, responsabile auto nella Segreteria nazionale della Fiom-Cgil, si è affrettato a dichiarare che “l’Amministratore delegato di Fca ha purtroppo confermato, da Detroit, quanto avevamo da tempo già verificato”, ovvero che “l’obiettivo della piena occupazione nel 2018” non sarà raggiunto”. “I numeri parlavano già chiaro – ha proseguito De Palma -, ma ora è giunto il momento di aprire un confronto”.
@Fernando_Liuzzi