“La peggiore pecca, il difetto più insopportabile degli italiani è la furbizia” sosteneva il premio Nobel Modigliani con la suo tagliente ironia.
È auspicabile che la partita aperta fra Bruxelles e il Governo Italiano sulla manovra economica non venga giocata dando ragione a questo illustre economista. La manovra ha tratti espansivi che non si vedevano da tempo ma è centrata sostanzialmente sulle imprese tanto da far dire al Presidente della Confindustria un “finalmente, non si agisce individuando settori da sostenere ma puntando sulle imprese”. Un bene, un male? Fossimo in un periodo “normale” potremmo cavarcela con un giudizio del tipo “luci ed ombre”, ma non siamo in un contesto normale. Vediamo il perché.
Intanto molte previsioni internazionali segnalano con preoccupazione che nei prossimi anni la congiuntura economica sarà ancora segnata da una crescita che rischia di confondersi con la stagnazione e con lo spettro di proseguire, malgrado gli sforzi possibili, sulla via di una bassa produttività. Uno scenario che se vale per il panorama internazionale potrebbe a maggior ragione valere per il nostro Paese. Per sfuggire a tale evenienza occorrono allora progetti straordinari e soprattutto condivisi. Le misure del Governo offrono alle imprese certamente delle maggiori opportunità rispetto al passato, sul piano fiscale, su quello della innovazione con attenzione ai ritardi accumulati sull’industria 4.0, su quello della ricostituzione di margini economici per investire e recuperare competitività.
Ma restano aperti due nodi sui quali anche la Confindustria del Presidente Boccia resta evasivo pur invocando un migliore rapporto con i sindacati: i contratti da rinnovare e l’esigenza di uscire dalla lunga stagione dei bassi salari. Se dunque l’esito di questa manovra sarà quella di ricostituire soprattutto margini di profitto erosi dalla crisi a spese dei salari e dei posti di lavoro sarebbe la riedizione di vecchie formule senza però garantire quella spinta forte che serve per uscire dalla palude della bassa crescita. Insomma così non ci siamo.
Se poi, a maggior ragione, la strada dell’innovazione e della maggiore produttività sarà quella che porta ad una disputa su chi detiene il potere all’interno del sistema aziendale per favorire una nuova unilateralità a svantaggio di lavoratori e sindacati e quindi dall’esito scontato e non apre invece la porta ad un vero rinnovamento delle relazioni industriali e alla partecipazione.
Si dovrebbe tornare, in parole povere, a quella capacità di fare sistema che è stata alla base degli sforzi per far diventare l’Italia il secondo Paese manifatturiero d’Europa ed in questo senso sbaglia Boccia a complimentarsi con il governo per aver messo fra parentesi la questione dei “settori”, sia perché occorre avere una strategia in grado di non impoverire la produzione di opportunità come ad esempio la chimica verde, sia per non essere costretti a difendere la nostra posizione produttiva contando sulle debolezze degli altri competitori, mentre ci vengono magari sfilati altri fiori all’occhiello del made in Italy.
Su questo punto la manovra del Governo non da risposte, e questo dimostra uno squilibrio di attenzioni fra le ragioni privilegiate della imprenditoria e quelle sindacali che potrebbe anche far intuire una scelta di campo su quello che probabilmente è il più grosso problema che abbiamo di fronte: come declinare le questioni che girano attorno alla gestione del potere in economia e dalle quali dipendono il futuro della occupazione, dei diritti dei lavoratori e, probabilmente, anche di importanti temi sociali come quelli legati al welfare aziendale e non. E siccome siamo all’inizio di un percorso tanto vale metter subito in chiaro le problematiche che sono di fronte a tutti noi.
Ma nella manovra c’è anche un secondo squilibrio che non va sottovalutato ed è quello fiscale: siamo passati dagli sgravi contributivi per far ripartire un po’ di occupazione, fenomeno che sta esaurendosi lasciando spazio invece a quello della maggiore facilità nel licenziare, ad una premialità secca a favore delle imprese. Lasciando sullo sfondo la vera priorità da affrontare se si vuol inserire nel sistema economico e sociale vera equità, vale a dire la riforma Irpef.
Se leggiamo il quadro dell’evasione fiscale proposta dall’ex Presidente dell’Istat Giovannini, ora Presidente di una Commissione che sta cercando di fare luce sul fenomeno, vediamo che i probabili imputati si trovano proprio da coloro che sono stati favoriti in prima battuta dalle misure fiscali dall’Iri per le Pmi al superamento degli studi di settore. Anche in questo caso c’è una apertura di credito che sembra essere più una carta bianca che una scelta fatta perché ci si attende una assunzione di responsabilità nuova da parte delle categorie economiche maggiormente a rischio di evasione ed elusione.
E c’è da chiedersi cosa resterà per rimodulare in modo davvero convincente le aliquote Irpef, tenendo conto che siamo comunque in una fase nella quale i redditi da lavoro dipendente e da pensione soffrono dell’impoverimento da recessione e i timori sul futuro spingono più a risparmiare che a consumare. Fra le critiche rivolte alla manovra del Governo c’è quella di essere una manovra elettorale. Ed è il dubbio che probabilmente ha spinto l’Europa a mettere le mani avanti riscontrando troppe una tantum e al tempo stesso una interpretazione troppo generosa quando si è trattato di definire il deficit.
Bruxelles teme però che l’esempio dell’Italia faccia smottare le rigidità dei parametri che hanno rappresentato la faccia truce di una austerità dannosa ieri ed oggi incomprensibile. Da questo punto di vista è comunque necessario per la sopravvivenza del vecchio Continente aprire una fase del tutto nuova. E se una prima sveglia arriva dall’Italia, uno dei Paesi fondatori non è certo un male. Semmai va osservato con una certa tristezza l’assenza attuale di spazi per alleanze in questa direzione in Europa, pensiamo alle convergenze fra Paesi mediterranei, che moltiplica le debolezze di tutti e ingessa una egemonia tedesca che potrebbe ritorcersi proprio sulla costruzione europea dando ancora più forza ai populismi che serpeggiano.
Ma l’interrogativo che dobbiamo porci al nostro interno è quello se siamo davvero di fronte ad un manovra espansiva che guarda oltre l’appuntamento del referendum di dicembre e che sappia ricostituire un tessuto di rapporti ed una energia nel sistema economico e sociale in grado di farci fare davvero uno scatto davanti. Ed è un problema tutto nostro. Lo scenario è , va detto chiaramente, ancora nebbioso. E se non è in grado di offrire garanzie reali rischia di perpetuare quel clima di incertezza che ha frenato il ritorno alla crescita e può ancora attardarlo.
Di qui una serie di impegni che vanno onorati anche dal sindacato. Proseguire con grande determinazione l’iniziativa per dare compimento alla stagione contrattuale. Essere presenti con capacità propositiva sui temi della ripartenza della produzione ma anche su quelli dell’equità. E far comprendere che le decisioni prese sul terreno occupazionale non sono quella strategia di ampio respiro in grado di creare più posti di lavoro di quelli che si perderanno ancora. Ecco perché la “furbizia” evocata da Modigliani oggi non serve, è semplicemente inutile. Non è all’altezza della sfida che impone di misurarsi con quello che si deve fare per risalire la china e lasciarsi definitivamente alle spalle i fantasmi della crisi.