La terribile lezione della pandemia in atto
La drammatica diffusione della pandemia da virus Sars Covid-2, responsabile della COVID 19, ha spazzato via l’illusione che un servizio sanitario nazionale, frammentato a livello regionale, sotto-finanziato, deprivato di personale e senza una direzione politica unitaria, potesse garantire protezione e assistenza ai nostri cittadini all’infuori della ordinaria quotidianità.
Un’illusione, del resto, diffusa anche negli altri paesi europei; per non parlare degli USA dove il tentativo di Obama di introdurre un sistema sanitario universalistico è stato affossato da Trump con il concorso, purtroppo, di molti americani da sempre contrari alla sanità pubblica e ai cosiddetti “letti rossi del comunismo”
Il nostro servizio sanitario ha mostrato in pieno le sue fragilità, e queste impongono un profondo ripensamento del suo modello organizzativo a partire dalla revisione del dettato costituzionale che affida alle regioni competenza concorrente in materia sanitaria e di protezione civile.
Un cambiamento che, tuttavia, prima di essere un auspicio e uno sforzo intellettuale da realizzare è già un dato di fatto, visibile negli sforzi sostenuti quotidianamente per limitare la diffusione del contagio e dare assistenza ai malati.
La ri-statalizzazione della sanità
Che altro significato potrebbe avere, infatti, la nomina di un Commissario straordinario, la centralizzazione dell’acquisto e della distribuzione alle diverse regioni di mascherine, DPI e respiratori o il richiamo dei riservisti delle professioni mediche e infermieristiche per rafforzare gli organici impoveriti degli ospedali del nord? Cosa pensare degli ospedali da campo donati da paesi esteri o da associazioni non profit e le lunghe teorie di camion che trasportano moduli di rianimazione laddove serve, nelle diverse parti del paese?
Non è questa la testimonianza del fallimento della pretesa autosufficienza e della altrettanto auspicata “autonomia differenziata” delle regioni del nord ivi compresa quella della Lombardia, la più ricca e fornita di posti letto ospedalieri?
Le patetiche e indecorose polemiche tra il Governatore della Lombardia Fontana e il premier Conte sulla paternità della responsabilità sulla mancata chiusura del bergamasco, quando già era chiaro quanto ampia fosse la diffusione del COVID 19 e la tardiva ammissione dell’assessore lombardo della sanità Giulio Gallera che le competenze erano della regione Lombardia (comma1 dell’articolo 2 della legge 833/1978), sono la riprova di quanto ingenti possano essere i danni in mancanza di un’unica direzione strategica nazionale.
Il sistema è franato per un impoverimento di risorse finanziarie, umane e soprattutto culturali. Ci si è illusi che la medicina fosse una pure questione di dotazioni tecnico – strumentali e che il sistema dovesse poggiarsi esclusivamente su quella che si definisce la medicina dell’attesa (gli ospedali come machin a guerir dell’intensità tecnologica) e che a poco servisse la medicina dell’iniziativa (le cure primarie di prossimità incardinate su promozione della salute, prevenzione delle complicanze ed estensività dell’assistenza).
La diversa risposta della regione Lombardia e della regione Veneto
La differenza degli outcomes nel contrasto al contagio tra la regione Lombardia (basata sul primo paradigma) e il Veneto (basato su una storica integrazione ospedale/territorio) sono la dimostrazione di quanto drammaticamente inefficiente in termini di salute pubblica sia il sistema messo in piedi dal celeste Formigoni e continuato dai suoi epigoni leghisti. Un sistema in cui le cure primarie sono state emarginate, depotenziate e il personale dedicato abbandonato al proprio destino. E questo nonostante lo straordinario impegno del personale sanitario ospedaliero che ha affrontato con dedizione e coraggio la battaglia contro la pandemia, mettendo a repentaglio, senza incertezze o defezioni, la propria vita.
Il presidente della regione Veneto, Zaia, con la sua guerra combattuta casa per casa, è sembrato adottare la strategia del generale Giap e vince la sua battaglia di Bien Dien Phun contro il virus, stando fianco a fianco a ogni singolo membro della sua comunità. Un comportamento molto diverso da quello del presidente Fontana che troppo sicuro, come il generale Henri Navarre della invulnerabilità delle sue fortificazioni, non si rende conto di come il nemico invisibile sia già infiltrato ben oltre le retrovie.
Il piano del Ministro della salute Roberto Speranza
Il sistema sanitario va cambiato, ma di fatto è già cambiato perché la realtà sta imponendo un approccio completamente diverso per contrastare un contagio che, dopo avere infettato gli ospedali lombardi, ha ora colonizzato le nostre case e si trasmette prevalentemente tra le mura domestiche; con un rischio relativo di ammalarsi 100 volte superiore se si convive con un congiunto infetto anche se asintomatico. E’ ora qui, nell’ambiente domestico, che si deve oggi organizzare la risposta se il nostro obiettivo è fermare un nemico che viaggia sulle gambe delle gente e usa la prossimità più intima per espandere la sua popolazione di replicanti.
Il ministro della Salute Roberto Speranza ha già dettato le linee per un nuovo modello organizzativo e questi sono i 5 punti delineati:
mantenere il distanziamento sociale;
rafforzare le reti territoriali al fine di identificare precocemente i contagiati e isolare i loro contatti;
istituire una linea separata di ospedali esclusivamente dedicati al trattamento della COVID 19;
impiegare diffusamente i tamponi per una diagnosi tempestiva e i test sierologici per definire lo stato di immunità della popolazione e decidere chi potrà tornare per primo al lavoro
introdurre un App con la duplice funzione di tracciare i contatti delle precedenti 48 ore dei nuovi casi e attivare un sistema di telemedicina con controllo a remoto dei pazienti affetti ma non gravemente malati.
Il ministro non ha sollevato la questione relativa alla ripartizione delle competenze tra stato centrale e regioni per ovvi motivi di opportunità politica. Esso tuttavia ha fatto valere quanto previsto dall’articolo 32 della già citata legge 833/78 avente per oggetto “Funzioni di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria” che attribuisce al suo dicastero la potestà di “emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di comprendente più regioni”.
La verità è, dunque, che la sanità è stata già ricondotta nel suo naturale alvo centrale e questo per un tempo indefinito; perché l’emergenza non cesserà con la fine del lockdown e perché noi dovremo imparare a convivere con il virus Sars CoV-2 fintantoché non sarà stato approntato un vaccino efficace. Uno spazio temporale non di pochi mesi ma più ragionevolmente di qualche anno.
I drammatici limiti del nostro servizio sanitario
Di fatto questa epidemia (e le altre che potrebbero venire), con il suo terribile carico di morte di cittadini (oltre 17.000 quelli ufficiali a cui aggiungere un numero estremamente più elevato di quelli misconosciuti) prevalentemente anziani e di professionisti della salute mandati spesso allo sbaraglio senza idonei mezzi di protezione e procedure codificate (il 12% dei contagiati con quasi 100 medici morti in servizio e 25 infermieri) sta imponendo un nuovo discorso di sanità pubblica.
Un discorso che nasce dalla constatazione dei limiti del nostro sistema ora emersi con drammatica chiarezza, come una profezia che si avvera:
la mancanza di una programmazione nazionale in tema di promozione della salute negli ambienti di vita e di lavoro e di prevenzione delle malattie di tipo epidemico;
la subordinazione del ministero della salute al MEF che di fatto dispone delle risorse stanziate e del loro reale utilizzo e la scarsa autorevolezza di molti dei ministri incaricati;
la regionalizzazione della sanità, introdotta con il novellato Titolo V della costituzione e l’incapacità dimostrata nell’affrontare le grandi emergenze sia di tipo epidemiologico (l’invecchiamento della popolazione e il prevalere delle cronicità) che epidemico (dall’infezione da virus influenzali a quella odierna da coronavirus);
le politiche di tagli perpetrati per anni su risorse umane e finanziarie con i loro drammatici effetti in termini di sicurezza dei pazienti e degli operatori e di eguaglianza nell’accesso alle cure;
la fallace illusione dell’inutilità di un sistema di cure primarie e la disastrosa credenza che la salute umana sia una questione esclusiva di assistenza ospedaliera; una rete di ospedali da espandere per attirare pazienti dalle altre regioni facendovi entrare quote crescenti di attori privati con la scusante che la competizione tra gli erogatori possa migliorare la qualità del servizio reso.
La mortificazione del personale (medici e infermieri) deprivati di ogni ruolo decisionale e sottomessi a un sistema di governance autoritario in cui un direttore generale amministra un potere monocratico senza alcun controllo da parte di chi rappresenta il vero valore aggiunto della sanità: l’insieme degli operatori delle diverse qualifiche professionali che in esso operano.
Elementi che impongono una riflessione e che rimettono al centro del dibattito il valore dei principi della più volte citata legge 833/1978 firmata dall’allora Ministro della sanità Tina Anselmi. Quella legge, travolta e vilipesa dagli anni bui delle politiche neoliberiste, a cui anche la sinistra ha strizzato l’occhio, ci ha oggi consentito di assumere delle decisioni di livello nazionale altrimenti impossibili. Segno della lungimiranza dei suoi estensori.
Per una nuova legge 833 di ricostruzione del servizio sanitario nazionale
La legge 833/1978 mantiene, ancora oggi, integra la sua validità valoriale e ai principi in essa delineati dobbiamo nuovamente e necessariamente inspirarci per rilanciare un nuovo servizio nazionale, nella consapevolezza delle grandi difficoltà economiche che avremo davanti per i prossimi decenni.
Difficoltà che non devono fermarci ma che tuttavia ci impongono di ragionare su un’idea di riforma concreta e realizzabile. Serve per questo un nuovo impegno civile, una epistemologia sociale pari a quello che, negli anni ’70 fu alla base della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.
Offro alla discussione degli attenti lettori del “il diario del lavoro” 10 punti di riflessione, intorno ai quali già si è raccolto un gruppo di lavoro, e che dovrebbero portare alla stesura di un “Manifesto per un nuovo Servizio Sanitario Nazionale da presentare ai cittadini, alle associazioni dei pazienti, alle forze sindacali e ai partiti politici
Spero che questo invito sia raccolto da altri e che insieme si possa cogliere questo ambizioso obiettivo di rifondare il nostro servizio sanitario universalistico, uscendo dalle difficoltà in cui la cattiva politica lo ha fatto precipitare in questi ultimi 15 anni.
Dieci linee di riforma per un nuovo Servizio Sanitario Nazionale
Attribuzione allo stato di competenza esclusiva in tema di sanità e Protezione civile
Adeguamento del finanziamento per la sanità con l’indicazione di un valore rispetto al PIL sotto cui non scendere e comunque in linea con gli altri paesi europei
Attribuzione al Ministero della salute del power spending in tema di sanità sottraendo questo ruolo oggi incardinato nel Ministero delle Finanze
Potenziamento del Dipartimento di prevenzione del Ministero della salute, integrandolo fortemente con ISS e strutture regionali e rilancio dei grandi temi della prevenzione nei luoghi di vita (Guadagnare salute e la salute in tutte le politiche) e di lavoro
Riscrittura degli atti di indirizzo per la dirigenza medico sanitaria e del comparto sanitario reintroducendo le materie e le modalità di contrattazione abrogate dall’ex Ministro Brunetta e solo parzialmente reintrodotte in seguito
Riscrittura degli atti di indirizzo sulla e medicina generale e la specialistica ambulatoriale al fine di realizzare una reale integrazione tra MMG e distretto rilanciando le case della salute (secondo il progetto originale elaborato dalla CGIL e fatto proprio dal Ministro della Salute Livia turco) o le altre forme di aggregazione e implementazione del chronic care model come mission delle cure primarie
Reintroduzione negli ospedali e servizi sanitari degli organici predefiniti (in funzione di posti letto o altro) superando la formulazione delle dotazioni organiche attraverso cui si sono drammaticamente impoverite le consistenze numeriche di reparti e divisioni
Revisione dei modelli di governance delle aziende sanitarie, superando la figura del direttore generale come organo monocratico e restituendo reale potere nella programmazione e valutazione dei servizi alle componenti professionali, oggi schiacciate e senza alcun potere decisionale
Rafforzamento degli istituti di concertazione regionale anche al fine di uniformare condizioni di lavoro e trattamenti economici delle diverse ASL e AO.
Previsione di organi di consultazione vincolante a livello regionale e di ASL per le associazioni dei cittadini e di tutela dei pazienti
Roberto Polillo