Ivan Russo, dotto avvocato e fine giurista, sta conducendo una battaglia personale. Vuole dimostrare, codici alla mano, che il silenzio implica complicità. Sembra che a Manduria tutti, o perlomeno molti, sapessero delle sevizie inflitte al pensionato Antonio Stano. Dopo la morte del povero uomo, insultato, deriso, malmenato come Cristo, ha scritto, per prima cosa, al vescovo. Chiede di sapere perché il parroco, al corrente delle selvagge aggressioni, si sia limitato ad un semplice esposto senza intervenire con decisione per mettere fine o quanto meno contrastare l’orribile andazzo. Finora non ha avuto risposte ma i suoi interrogativi non si limitano alle responsabilità della Chiesa, coinvolgono l’intera comunità, dagli amministratori comunali alle famiglie dei feroci bulli, dalle forze dell’ordine ai vicini di casa, dagli insegnanti di scuola agli operatori della sanità.
Antonio, 66 anni, era catalogato come disabile psichico. Una sorta di matto del villaggio, esposto al pubblico ludibrio in quanto debole e diverso, nel totale e cinico menefreghismo. Per salvarlo sarebbe bastato poco. Un concreto gesto di solidarietà, un minimo di vigilanza davanti alla sua abitazione, un’offerta di ospitalità, un fattivo e severo intervento nei confronti dei persecutori. Ma la vomitevole indifferenza, così la chiama Russo, lo ha lasciato solo, fino all’estremo. “Andatevene”, lo si sente gridare mentre i teppisti lo assaltano in strada. Calci, pugni, spintoni, risate. Un urlo di angoscia che sbatteva contro i muri scrostati e le finestre chiuse, come se non ci fosse eco e il suono del dolore rotolasse sul selciato per finire nel tombino dell’ignavia e della vigliaccheria. Quanto dolore, quanta disperazione, quanta solitudine. I bravacci facevano irruzione fin dentro casa. “Ci implorava di fermarci”, ha raccontato un ragazzo di 16 anni che assieme a sei coetanei e due maggiorenni è ora sul banco degli accusati.
Ha scritto il giudice per le indagini preliminari: “Stano è stato fatto oggetto di un trattamento inumano e degradante, braccato dai suoi aguzzini, terrorizzato, dileggiato, insultato anche con sputi, spinto in uno stato di confusione e disorientamento, costretto ad invocare aiuto per la paura e l’esasperazione di fronte ai continui attacchi subiti e, di più, ripreso con dei filmati (poi diffusi in rete nelle chat telefoniche) in tali umilianti condizioni”. Già, perché oggigiorno vantarsi su Whatsapp o su Facebook delle nefandezze compiute è una costante, confermata anche dall’ineffabile protervia dei due militanti di Casapound che da Viterbo diffondevano video della violenza compiuta contro una donna.
Se i reati non solo sono rivendicati ma anche pubblicizzati sui social, perché tutti fanno finta di non sapere? E torniamo a Manduria. I magistrati stanno prendendo in considerazione anche il reato di tortura continuata, che a sua volta si intreccia con l’omissione di soccorso da parte di chi sapeva ma non è intervenuto per tutelare e proteggere la vittima dalle odiose e letali vessazioni che andavano avanti da tempo.
Nella sua offensiva a difesa della convivenza civile, Ivan Russo, affiancato da un altro combattivo legale, il criminologo Donato Santoro, si appella all’articolo 593 del codice penale che al primo comma impone di avvisare le autorità se qualcuno si trova in pericolo e al secondo prescrive di intervenire subito per prestare soccorso qualora la segnalazione non basti. Riuscirà a inchiodare alle loro responsabilità coloro che si sono girati dall’altra parte? Difficile, perché in genere una mano lava l’altra e Ponzio Pilato oscura Don Chisciotte. Ma la devastante vicenda, al di là del contesto giuridico, interroga le nostre coscienze.
L’Indifferenza è il concime del Male. Sempre.
Marco Cianca