Quadri e dirigenti, in termini di disoccupazione, sono stati colpiti dalla crisi quanto gli altri lavoratori, con ulteriori forti difficoltà di ricollocazione ed impiegabilità, dovute alla congiuntura economica ed ai processi di riorganizzazione delle imprese.
Con una certa venatura populistica, specialmente all’inizio della crisi finanziaria, i “manager” sono stati anche genericamente individuati come i responsabili principali della crisi stessa, anche se va riconosciuto quanto sia necessario saper distinguere tra il c.d. “management dei Consigli di Amministrazione”, responsabile di gravi irregolarità e spesso percettore di compensi astronomici, ed i lavoratori ad alta qualificazione ed alti livelli di responsabilità e autonomia, gli “organizzatori di impresa”, che ben poco hanno a che vedere con i primi.
Il sindacato italiano, in buona compagnia con molti altri sindacati europei, per la verità, ha iniziato tardi ad occuparsi di quadri ed alte professionalità con il grave rischio di consegnare questo mondo ad uno schema prettamente tayloristico e fordista nel quale i quadri rivestono un ruolo essenzialmente gerarchico e meramente contrappositivo rispetto agli altri lavoratori.
Nella moderna evoluzione del lavoro questa distinzione di ruoli e compiti non regge più.
Nella società e nel lavoro della conoscenza, l’impresa si trasforma in una macchina collettiva che produce relazioni, reciproci “riconoscimenti”, meccanismi partecipativi, formalizzati e non. Quadri ed alte professionalità non devono “essere altro” rispetto al resto dei lavoratori, anche per una sorta di necessario “contrappeso” dei sempre più frequenti contesti di smaterializzazione e finanziarizzazione dell’economia e delle imprese stesse.
La crisi finanziaria ci ha dimostrato quali distorsioni ed arretramenti abbia provocato l’ampia affermazione del modello, diffuso soprattutto negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, del cosiddetto shareholder value, ossia il valore per gli azionisti, secondo il quale compito primo dell’impresa e del manager è quello di rendere più elevato possibile l’utile che l’azionista ricava dal fatto che investe i suoi risparmi e il suo denaro nell’impresa acquistandone le azioni. Sappiamo quali distorsioni ed arretramenti rischia di creare questo modello nei progetti produttivi – industriali di medio-lungo periodo, in quanto spesso il perseguimento del maggior valore delle azioni sul mercato nel breve periodo comporta scelte di ristrutturazione, di scorporo, di riduzione degli addetti che non solo non hanno per lo più risultati positivi sul piano produttivo-industriale, ma sicuramente danno vita a fenomeni distorsivi, se non illeciti.
Un ulteriore aspetto da considerare è quello dei cambiamenti nell’organizzazione del lavoro variamente collegati alle nuove tecnologie, che comportano una moltiplicazione delle figure professionali, la nascita di percorsi di carriera basati su professionalità individuali che rendono più difficile la compattezza di un tempo delle categorie industriali e, in riferimento a questo, le politiche del lavoro da parte delle imprese che tendono sempre più a un dialogo diretto con i dipendenti nel tentativo di scavalcare e bypassare le rappresentanze sindacali.
Il tema della “sindacalizzazione” di manager ed alte professionalità, al di là degli strumenti specifici e peculiari di rappresentanza di questa categoria, non può quindi che interrogare il sindacato confederale poiché rappresentare questi segmenti del lavoro significa anche mettere in discussione modelli consolidati, ma, almeno parzialmente superati, del fare sindacato, per spendersi in campi che necessitano di coraggio ed innovazione.
I quadri non hanno infatti bisogno di risposte contrattuali “standardizzate”, ma sono lo specchio, certamente peculiare, di un’evoluzione delle relazioni di lavoro che non può che premiare il secondo livello di contrattazione e la produttività e che, anche quando sfocia nella contrattazione individuale, non significa, per il sindacato, l’abdicare alla propria funzione di rappresentanza per lasciare il lavoratore solo di fronte al potere asimmetrico dell’impresa. La contrattazione individuale che riguarda quadri e manager, ma che può espandersi anche in altri campi, purchè in rapporto con la contrattazione collettiva, deve essere sempre più ancorata alle esigenze e al merito delle persone, con la capacità di cogliere le diversità e di fornire risposte differenziate.
Un’ulteriore riflessione va fatta sul ruolo dei dirigenti e dei quadri e la questione della responsabilità sociale di impresa.
Il D. lgs 81/2008 contiene la seguente definizione di Rsi:
“l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle aziende e organizzazioni nelle loro attività commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.” (1)
Tale definizione sembra riportare solo la prospettiva delle aziende, mentre i lavoratori vengono ricompresi marginalmente fra le “parti interessate” dai rapporti aziendali, con quadri ed alte professionalità con una funzione di “muro”, piuttosto che di “cerniera ed anello di congiunzione”.
L’approccio sindacale prevalente alla responsabilità sociale d’impresa individua invece il capitale umano come il primo degli investimenti.
Negli sforzi che le imprese operano per rendere concreti e credibili i principi e i valori che affermano pubblicamente debbono necessariamente essere coinvolte le persone che in esse operano ed in questo un rapporto proficuo e costante tra la massa dei lavoratori e le alte professionalità presenti nelle aziende non può che essere centrale.
Una ricerca recentemente promossa dalle Acli di Bologna (2) ha messo in luce come i lavoratori appartenenti alle fasce medio-basse reputino l’impegno sociale delle imprese meramente promozionale e utilitaristico. In questa indagine molti lavoratori (circa il 50%) hanno sottolineato l’importanza di un collegamento tra la responsabilità sociale e la formazione professionale e continua, circa il 20% degli intervistati ha dichiarato di aver ricevuto una formazione collegata ai temi della responsabilità sociale d’impresa.
L’indagine delle Acli dimostra come tra i lavoratori vi siano opinioni variegate rispetto al tema formazione legata alla RSI: c’è che le attribuisce un significato etico e preparatorio a pratiche aziendali socialmente responsabili e chi invece la considera solo uno strumento che utilizza l’impresa per proiettare all’esterno una buona immagine di sé.
Può essere utile riportare in sintesi alcune considerazioni rispetto alla Rsi vista dal punto di vista dei lavoratori, in parte risultante dalla stessa indagine promossa dalle Acli:
– se i lavoratori possono contribuire a rendere l’impresa più responsabile, nello stesso tempo ci si attende che siano amministratori e manager a svolgere il ruolo di maggiore spinta. Rimangono ancora basse le attese nei confronti della possibilità di partecipazione alla costruzione di eventuali codici e del bilancio sociale;
– per quanto riguarda le attese verso la qualità del lavoro viene posta attenzione alle condizioni strutturali, ad esempio la certezza del posto di lavoro, seguite dal riconoscimento del merito e della professionalità e dalla possibilità di conciliare tempi di vita e lavoro. Si rileva, anche in fasce intermedie di lavoratori, l’attenzione verso l’inserimento nella Rsi di un maggiore spazio attribuito ai lavoratori per proporre modifiche di processo e di prodotto.
Anche una visione complessa e non strumentale della responsabilità sociale d’impresa vede quindi centrale la costruzione di un nuovo sistema di relazioni, non antagonistico, ma partecipativo, nel quale la conduzione aziendale si alimenti attraverso meccanismi di governance che sappiano valorizzare il coinvolgimento dei lavoratori, ai vari livelli, nei processi e negli obiettivi.
Secondo questa visione il ruolo di manager e quadri “pacificatori” e non “guerrieri”, per utilizzare termini già usati nel corso del Forum de “Il diario del lavoro”, risulta uno dei punti di fondo.
Senza dimenticare che in un contesto, come quello italiano, nelle piccole imprese e nei distretti industriali il governo partecipato dell’impresa nasce e si afferma “fuori dall’impresa stessa” con un processo che deve connotare l’intera filiera produttiva, l’intero distretto nel quale l’impresa opera. E con esso, ovviamente, coinvolgere, quadri e manager che operano nella filiera in un ottica di lavoro di rete, troppo poco sviluppato nel nostro sistema produttivo.
Come giustamente ha affermato un recente Rapporto (3) “lo sviluppo delle imprese innovative nella società della conoscenza non può più basarsi sull’attività di gruppi professionali circoscritti o sull’azione di superspecialisti isolati, ma deve poter contare su un’intelligenza diffusa e su reti professionali adeguate, orientate ad una logica di qualità, di personalizzazione e a comportamenti improntati al rispetto dell’etica della responsabilità personale e professionale“.
Se, indubbiamente, siamo lontani dai tempi in cui, ad esempio nella visione olivettiana, il ruolo sociale nel rapporto tra fabbrica e comunità assumeva un valore immanente non possiamo rinunciare all’intuizione che ne era alla base: la ridefinizione dell’organizzazione del lavoro secondo una funzione sociale dell’impresa che sa coniugare al proprio interno principi di democrazia economica ed industriale in grado di contaminare l’intero mercato del lavoro e non solo la singola azienda al proprio interno.
In questo senso, accompagnando con consapevolezza questa propria nuova “responsabilità”, il sindacato confederale deve saper costruire le proprie risposte contrattuali per il mercato del lavoro di domani: non rinunciando al ruolo di costruttore di relazioni tra elementi diversi.
La prospettiva partecipativa si basa infatti anche su un nuovo rapporto con i quadri e le alte professionalità, secondo modelli volti al benessere della persona e alla costruzione di tutele di nuova generazione (si pensi, per fare un esempio, al diritto contrattuale all’outplacement e al coaching), che devono sapersi allargare e poter essere condivisi, ovviamente in forme differenziate, dalla generalità dei lavoratori e delle lavoratrici del futuro.
1) Art. 2, comma 1 par.ff del D.Lgs 81/2008.
2) F. Murru (a cura di): Responsabilità Sociale d’Impresa. Il punto di vista dei lavoratori, Franco Angeli, Milano, 2008
3) Luiss Guido Carli, Terzo Rapporto “Generare classe dirigente in Italia, 2009)
Giorgio Santini