La ricorrenza del Primo Maggio, festa dei lavoratori, spinge a interrogarsi sullo stato di salute della loro rappresentanza, il sindacato. Come stanno i sindacati italiani? Godono di buona salute o vivono un momento di difficoltà? Le notizie sono un po’ contraddittorie. Un dato positivo è la crescita del numero dei lavoratori. Negli ultimi mesi il dato relativo al tasso di occupazione nel nostro paese è cresciuto, si sono contati 500mila posti di lavoro in più e sottovalutare questo dato sarebbe un errore. È vero che non sono tutte rose, che l’Istat considera come lavoratore attivo anche una persona che nel giro di un mese ha lavorato solo due giorni, ma la crescita è un dato di fatto, tanto più se si considera che è aumentato anche il numero dei contratti a tempo indeterminato.
Il numero di chi lavora quindi è cresciuto, sull’altro braccio della bilancia pesa però la divisione, sempre più vistosa, tra le tre maggiori confederazioni. Non fa piacere a nessuno, ma le distanze tra Cgil, Cisl e Uil sembrano aumentare invece di diminuire. Cgil e Uil hanno intrapreso una prova di forza con il governo che non è apprezzata dalla terza confederazione. Non si tratta di divisioni assolute, perché i tre sindacati maggiori hanno messo a punto assieme le richieste poi presentate al governo. Ma si sono divisi quando è stato necessario valutare i risultati portati a casa. Cgil e Uil hanno ritenuto di non aver ricevuto abbastanza e hanno continuato il braccio di ferro a suon di scioperi più o meno generali, la Cisl ha visto dei passi in avanti e si è astenuta dalle proteste.
Le divergenze tra i tre sindacati sono poi cresciute fino al piano personale, avvelenando il clima sociale. Una situazione difficile che non fa bene al sindacato, perché, è noto, uniti si è più forti, divisi si finisce per perdere. La storia del sindacato è costellata di esempi, è inutile ripercorrerli. Consola il fatto che le divisioni, per quanto forti, si siano fermate al livello confederale, perché le federazioni di categoria mantengono buoni se non ottimi rapporti e lavorano assieme, cosa molto positiva perché è iniziata una difficile stagione di rinnovi contrattuali e affrontarla divisi, come pure è occorso in passato, sarebbe stato un grosso problema per tutti.
Oltre alla divisione tra i sindacati pesa la limitata considerazione della loro funzione da parte delle istituzioni. È il frutto malato della disintermediazione, una brutta parola che fu coniata quando era presidente del Consiglio, oltre che segretario del Pd, Matteo Renzi. Che non credeva nell’utilità di un buon rapporto con i sindacati, ma in generale con i corpi intermedi, quindi anche con le rappresentanze imprenditoriali e forse anche con i partiti politici, e ripudiò qualsiasi forma di concertazione. Renzi smise di avere rapporti con i sindacati, che non amava incontrare, preferendo avere un rapporto diretto con i lavoratori. Nacquero così gli 80 euro. Anche con Confindustria fu rottura, tanto è vero che in occasione di un’assemblea della confederazione, momento solenne e importante per gli industriali, Renzi non solo non intervenne, ma si recò in visita a un’azienda del gruppo Fiat che aveva da poco abbandonato Confindustria.
La disintermediazione finì con Renzi, ma solo formalmente, perché da allora un rapporto vero tra sindacato e istituzioni non c’è più stato. Ancora, in questo conto pesa sul sindacato la crisi di Confindustria, che da più di dieci anni è entrata in un cono d’ombra. Il presidente che sta per finire il suo mandato, Carlo Bonomi, aveva promesso di far risalire la china ma è successo proprio il contrario, la confederazione degli industriali ha perso forza, carattere, determinazione. E questa debolezza non può non riverberarsi sul suo interlocutore, il sindacato, aggravandone in qualche modo le difficoltà. Forse il nuovo presidente, Emanuele Orsini, riuscirà a ribaltare questa situazione di minorità, ma per il momento non è possibile fare previsioni.
Un sindacato quindi in difficoltà per gli effetti della disintermediazione, per le liti interne che lo dilaniano, per la crisi riflessa che gli viene dalle difficoltà di Confindustria. Ma sulla bilancia pesa anche, se non soprattutto, la crisi del lavoro che sta caratterizzando questi primi decenni degli anni duemila. Il lavoro ha perso il suo valore, la centralità, la capacità di rappresentare la vita stessa dei lavoratori. Un processo lungo che si è nutrito della profonda trasformazione dell’economia del paese, del fatto che la manifattura non ha più il ruolo di primo attore, che il mondo dei servizi è cresciuto in maniera abnorme e questo non è positivo perché i servizi, soprattutto il commercio e il turismo, sviluppano lavoro, sì, ma per lo più povero, improduttivo, precario. Non a caso i salari italiani perdono punti rispetto a quelli degli altri paesi industrializzati. La caduta del valore del lavoro è stata per il sindacato la sconfitta più forte, dalla quale non si è ancora ripreso.
E adesso? Che prospettive ha il lavoro e quindi il sindacato? Non buone, purtroppo, perché le difficoltà elencate non sono state superate ed è difficile che qualcosa accada adesso. Tanto più che l’atteggiamento del governo in carica non induce all’ottimismo. L’esecutivo di Giorgia Meloni ricorda troppo da vicino quello di Matteo Renzi. La premier non fa dichiarazioni di fede per la disintermediazione, al contrario, afferma di avere con il sindacato e in generale con i corpi intermedi della società ottimi rapporti, ma la realtà è tutta diversa. Gli incontri a Palazzo Chigi sono ripresi, ma nella Sala Ovale la premier invita una pletora di sindacati così numerosa da rendere inutile qualsiasi confronto. A parte il fatto che normalmente queste riunioni vengono convocate alla vigilia di importanti decisioni già prese e non modificabili.
Giorgia Meloni, come prima di lei Renzi, vuole avere un rapporto diretto con i lavoratori, come vuole averlo con i cittadini, ai quali propone non a caso il premierato, un rapporto diretto, uno contro uno, senza inutili e per lei dannosi intermediari. La differenza con il passato è che lei non lo dice. Ma lo fa. Ed è questo a contare davvero.
Massimo Mascini