«Siamo contemporaneamente servi e padroni di noi stessi, siamo servi e padroni gli uni degli altri, e di conseguenza viviamo in uno stato di controllo e ansia perenni».
In questa società della performance in cui tutti dobbiamo tenerci occupati e dare il massimo per attestare il nostro qui e ora, in cui il lavoro è portatore in senso, distributore di identità in una collettività alienata in cui sei quello che fai e se non fai non sei nessuno; in cui il tempo del lavoro si sovrappone a quello della vita, le aziende scandiscono ritmi forsennati che depredano l’uomo dei suoi spazi privati e lo spingono ad ansia, depressione e burnout. In questo mondo, dunque, il vaticinio di Jeremy Rifkin sulla “fine del lavoro” è soltanto un’illusione? La mirabile visione della fine della società fondata sul lavoro, sostenuta mentre surfavamo sull’onda di un benessere che appariva senza fine, si è invece tradotta in un rigurgito post-contemporaneo che ha portato con sé il crollo di tutte le ideologie e si quindi avvertita l’improrogabile esigenza di rinnovare il nostro apparato di certezze per ridare un senso alle nostre vite fondando una nuova religione a cui votarsi: il workism, in cui si associa «l’operosità al bene e il bighellonare al male». È questo il cuore del libro “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo” di Andrea Colamedici e Maura Gancitano (HarperCollins 2023), 228 pagine in cui i due autori ribaltano con impeccabile lucidità il mito del lavorismo a tutti i costi, dando finalmente voce a tacitati quesiti e ponendone di nuovi senza la presunzione di offrire facili risposte da manuale.
In una galoppata di 10 capitoli, Colamedici e Gancitano analizzano il lavoro non solo come statuto e concetto, attraverso una puntuale una panoramica di riflessioni storiche, sociologiche, filosofiche e politiche, ma soprattutto analizzano il lavoro in relazione a cosa è diventato per il lavoratore – o meglio, a come il lavoro ha trasformato il lavoratore. La riflessione alla base di questo appassionato studio risiede innanzitutto nell’urgenza di capire come, quando, dove e soprattutto perché lavoriamo: solo attraversando queste dimensioni del fenomeno – e quindi della persona, che nella loro riflessione coincidono – possiamo capire e disinnescare i meccanismi secondo i quali «abbiamo trasformato un potenziale strumento di liberazione nella più sottile e pervicace forma di schiavitù mai apparsa sulla terra».
Ma soprattutto, è quando il lavoro viene percepito come portatore di valore che l’inganno si rende manifesto: «Come scriveva Jean-Paul Sartre nella Nausea, la vita ha un senso nella misura in cui ci si sforza a trovargliene uno […]. Il lavoro – così come lo abbiamo impostato nella nostra società – sembrerebbe andare in questa direzione, ma in realtà è il tentativo disperato di produrre un senso nel modo peggiore possibile: annullando la relazione e puntando tutto sull’elaborazione della materia, sullo scavo e sull’emersione, convinti che prima o poi, di traguardo in traguardo, di task in task, qualcosa spunterà fuori». Impiegando la propria vita a rincorrere risultati sempre più performanti in questo interminabile agone con sé stessi, con i propri colleghi, con i capi e con il mondo intero, si finisce per arrivare sull’orlo del baratro psicologico e della fine della collettività, senza però essersi nemmeno pallidamente avvicinati all’illusoria meta del successo promessa dallo yuppismo. Il lavoro tossico sembra ormai essere un vero e proprio archetipo pienamente integrato nel nostro inconscio collettivo, condiviso da tutti gli esseri umani indipendentemente dalla loro cultura e dalla loro storia.
Come venirne fuori? «Il lavoro è diventato incontrollabile e inesorabile, un flusso perenne che impedisce la quiete e il respiro. Cominciare con il dirselo, con il vederlo, è un modo per accorgersi di quanto tutto questo sia inaccettabile e disumano. E quanto si possa, e si debba, cambiare». I due autori, quindi, propongono la via del sabotaggio, di riappropriarsi della vita contemplativa che ci riconduca al benessere allontanando il senso di colpa che deriva dal pensare che non si sta facendo niente, di riappassionarsi alla cosa pubblica e alla dimensione collettiva ristrutturando il tessuto sociale, “il grande assente del nostro tempo”. Disertiamo le logiche tossiche di un sistema che non ci vuole bene. «Lavoriamo, sì, ma per prenderci cura dello spazio che condividiamo. Partecipiamo insieme al gioco più bello che abbiamo saputo inventare: la politica, arte della cura e del conflitto».
Un merito particolare di questo volume va assegnato alla scelta del linguaggio impiegato: in una saggistica generalmente infarcita di parole astruse e concetti somministrati con tecnicismi dai rimandi arcani, Colamedici e Gancitano adoperano finalmente un dialogare colloquiale e divulgativo, facendo sì che la complessità della materia narrata possa circolare presso una vasta utenza, rendendola di pubblico dominio e di chiara fruibilità.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo
Autore: Andrea Colamedici, Maura Gancitano
Edizione: HarperCollins Italia
Anno di pubblicazione: marzo 2023
Pagine: 256 p., Brossura
ISBN: 979-5985-136-9
Prezzo: 18,50€