Cent’anni fa visse un giovane molto intelligente che fondò un giornale e un partito, scrisse diversi libri e molte lettere, finì in carcere e a causa di quella prigionia crudele morì in una clinica romana. Tra le tante cose che scrisse, c’è un concetto che non bisognerebbe mai dimenticare: l’ottimismo della volontà contrapposto al pessimismo della ragione. Quel giovane si chiamava Antonio Gramsci, e visto il periodo nefasto in cui elaborò quel concetto, col fascismo che imperava e dispiegava tutta la sua forza autoritaria e antidemocratica, grazie anche a un consenso popolare impressionante, non è arbitrario pensare che Gramsci fosse più pessimista che ottimista. Tuttavia non perse mai la speranza, basata peraltro sulla fiducia nelle masse popolari che, prima o poi, avrebbero smentito un destino che sembrava ineluttabile. Alla fine vinse il suo ottimismo, anche se lui non riuscì a vedere la caduta del fascismo, la fine della guerra in cui quel regime aveva trascinato l’Italia e la nascita della democrazia. Non del comunismo però, almeno in Italia, ma questa è un’altra storia.
La storia che invece ci interessa oggi raccontare non è certo paragonabile a quella immane tragedia che subirono Gramsci e i suoi contemporanei, ma non è neanche una farsa come Carlo Marx definiva la storia che si ripete due volte. Per quanto sembri difficile che possa tornare quel fascismo e quella dittatura, per non parlare della guerra mondiale, non sono irrilevanti le similitudini con il clima di un secolo fa che si vedono nei comportamenti di alcuni leader politici e di chi li sostiene e li vota. Questo non significa che se Giorgia Meloni e Matteo Salvini vincessero le elezioni del 2023, tornerebbe il fascismo con tutti i suoi orripilanti annessi e connessi. Non quel fascismo, certo, ma qualcosa che potrebbe assomigliargli, soprattutto nel campo dei diritti individuali e collettivi, della sempre più scarsa solidarietà nei confronti dei più deboli (gli immigrati, per esempio), nel modo infine di gestire il potere. Che non serve troppa fantasia per immaginarlo sempre più autoritario.
Ma siamo sicuri che la destra italiana, questa destra, vincerà le elezioni politiche? Al momento il pessimismo della ragione ci risponde di sì, ci dice che in fondo la maggioranza degli italiani è più di destra che di sinistra, e i sondaggi lo confermano. Ma c’è un ma, anzi ce ne sono tanti. Il primo lo vediamo in questi giorni, e riguarda il partito di Salvini, la Lega: nessuno avrebbe pensato pochi mesi fa che quel monolite salviniano si sarebbe diviso così platealmente entrando nel governo di Mario Draghi e dovendo fronteggiare una pandemia ancora in corso. Diviso tra chi – Giancarlo Giorgetti e i governatori da una parte, il segretario e i suoi fedeli dall’altra – è capace di comportarsi in maniera responsabile e chi invece soffia sul fuoco della protesta e del ribellismo purché sia: dai no vax ai no pass, ai no tutto. Con l’aggravante delle elezioni amministrative in arrivo, che non inducono all’ottimismo i capi della Lega. Così come neanche Giorgia Meloni può dormire sonni tranquilli, pensando ai candidati a sindaco che ha scelto o che ha subìto nelle grandi città che vanno a votare. Tra dieci giorni alcuni milioni di italiani dovranno scegliere i loro sindaci, ma si tratta di elezioni che non avranno un valore puramente locale, visto che si vota a Roma, a Milano, a Napoli, a Torino, a Bologna, a Trieste, a Salerno e così va. E che, come spesso è accaduto in passato, potrebbero essere il punto di svolta di una storia che sembra già scritta.
Facciamo l’ipotesi che il centrosinistra nelle sue cento forme e alleanze (spesso mancate, ma in futuro non si sa mai) riuscisse a vincere a Roma, Milano, Torino, Napoli e Bologna, nessuno potrebbe pensare che una vittoria del genere non abbia ripercussioni sul piano nazionale. Dopo centinaia di sondaggi che ci hanno dimostrato come “l’Invincibile Armada” della destra fosse appunto imbattibile, si avrebbe la prova del contrario. E di solito, quando il vento gira, si stabilizza in quella direzione. Almeno per un po’ di tempo.
Certo, ammesso e non concesso che il centrosinistra vincesse le amministrative, non avrebbe la certezza di vincere le elezioni politiche. Troppa strada dovranno fare Enrico Letta, Giuseppe Conte e tutti gli altri per riuscire a presentarsi uniti e con un progetto credibile di fronte a cinquanta milioni di elettori. E non gli basterà dire il contrario di quel che sostengono Meloni e Salvini, dovranno fare uno sforzo ulteriore. Spiegando agli italiani che Paese intendono costruire, contando su quali forze, premiando quali classi sociali e quali no, scegliendo insomma una strada che sia la più chiara possibile. Dalle tasse (chi deve pagare di più e chi di meno?) ai diritti delle cosiddette minoranze, al lavoro (precario o stabile?) fino alla pratica stessa della democrazia: elitaria o diffusa, centralistica o partecipata?
Le risposte a queste domande potrebbero risolvere il dilemma gramsciano con una mirabile sintesi: l’ottimismo della ragione.
Riccardo Barenghi