Il Diario del Lavoro si è assunto il compito quasi istituzionale (e gliene va riconosciuto il merito) di svolgere quella “conservazione della memoria” assicurata, nel Medioevo, dal Frati Benedettini che, nei loro conventi, conservarono tutto quanto era disponibile della cultura greca e romana, tramandando fino a noi la storia del pensiero occidentale, almeno fino a quando gli iconoclasti del correct culture non metteranno all’indice, tra i tanti, Platone (perché sospetto di pedofilia) e Cesare (perché guerrafondaio ed oppressore dei popoli). Oltre ad ospitare – insieme con poche altre fonti (ricordo per tutte Adapt) – il dibattito e le esperienze nel campo delle relazioni industriali e di ciò che gli sta attorno, Il Diario del Lavoro è solito richiamare l’attenzione – di quella parte di studiosi e di opinione pubblica interessata a questi temi – su eventi e pubblicazioni che aiutino a restare aggiornati e a meglio comprendere le trasformazioni in atto.
Nei giorni scorsi Il Diario ha promosso una discussione avente per oggetto una ricerca promossa dall’OIL e scritta da Jelli Visser dell’Ateneo di Amsterdam, dal titolo “Sindacati in transizione”. Gli argomenti trattati nella pubblicazione (se ne consiglia comunque la lettura) sono tanti; uno in particolare merita di essere ripreso proprio in relazione a come questo tema è stato centrale nel dibattito di quella sera e in generale lo è, ad ogni piè sospinto, nel Paese: il precariato e la sua mistica. Lo studio dell’OIL, se non altro, ricorda che questo fenomeno non è solo una disgrazia piovuta sulla testa del BelPaese, in seguito a qualche legge/canaglia imposta dal prevalere della cultura neoliberista. Sarebbe già importante, infatti, se si prendesse in considerazione la “universalità” (una parola divenuta di sinistra) del fenomeno e se si cercassero delle spiegazioni razionali.
“A partire dagli anni ’80 – è scritto nel documento – abbiamo assistito a un indebolimento del rapporto di lavoro standard, tipicamente utilizzato nelle grandi imprese, tra gli operai delle industrie sindacalizzate e gli impiegati con mansioni dirigenziali e d’ufficio. Il lavoro standard – precisa il testo – è stato il fondamento normativo delle leggi e delle norme volte a tutelare i lavoratori da eccessivi orari lavorativi e condizioni di lavoro non dignitose, garantendo loro il diritto di associazione e alla contrattazione collettiva, nonché a prestazioni come assicurazioni sociali e pensioni. Nei paesi ad alto reddito – chiarisce ancora l’OIL – i rapporti di lavoro sono molto diversificati, passando da un’occupazione formale permanente o stabile a diverse forme di lavoro atipiche (o non standard), in particolare il lavoro temporaneo, a tempo parziale, in somministrazione, a chiamata e diverse forme di lavoro autonomo.
Una maggiore flessibilità e diversità caratterizza anche l’orario di lavoro, fino ad arrivare al lavoro mobile e al lavoro da casa. In virtù di queste nuove modalità di lavoro, i lavoratori possono essere classificati come autonomi, indipendenti o in proprio, oppure possono essere collocati da un’agenzia di lavoro temporaneo, distaccati temporaneamente in altri paesi o trasferiti dalla forza lavoro principale di grandi aziende dominanti alle imprese più piccole e meno stabili dei loro fornitori. Il lavoro occasionale, inoltre, è ampiamente diffuso nei paesi a basso e medio reddito e si sta facendo strada anche nei paesi industrializzati”.
L’OCSE stima che il lavoro atipico, che comprende i lavoratori autonomi, temporanei, a tempo parziale e a tempo determinato, rappresenta quasi un quarto dell’occupazione totale. Il lavoro atipico, tuttavia, si è affermato ben prima della crisi del 2008. In media, quasi il 2,6% dei posti di lavoro a tempo pieno e permanenti nei paesi dell’OCSE sono andati distrutti a seguito della recessione, con un conseguente aumento del lavoro atipico. L’OIL stima che l’incidenza del lavoro temporaneo nel settore formale sia dell’11%, calcolata come media su 150 paesi. E i giovani? In un gran numero di paesi, sia ad alto reddito sia in via di sviluppo, la maggior parte dei giovani – afferma l’OIL – ha un lavoro temporaneo. Mentre i lavori con contratti a tempo determinato garantiscono alle persone che entrano nel mercato del lavoro un’occupazione retribuita, dando allo stesso tempo ai datori di lavoro la possibilità di reclutare il personale, la segmentazione dei mercati del lavoro e la dura protezione dei lavoratori “regolari” dal licenziamento spesso si traducono in catene infinite di lavori temporanei, riducendo la possibilità dei lavoratori di ottenere un’occupazione stabile. Nei paesi per i quali l’OIL dispone di dati, i posti di lavoro in somministrazione rappresentano dall’1% al 6% del lavoro retribuito. In Europa, è diventato più facile per le imprese, direttamente o attraverso agenzie di lavoro, “distaccare” i lavoratori in un altro paese per un tempo determinato. I paesi asiatici, in particolare, hanno assistito, nel corso degli ultimi decenni, alla crescita di varie forme di distaccamento del lavoro, in somministrazione, in subappalto o in “outsourcing” (esternalizzato).
Il rapporto ricorda poi che l’OIL nelle sue recenti pubblicazioni statistiche, ha stimato che il 61,2% dei posti di lavoro in tutto il mondo è concentrato nell’economia informale, oscillando dall’ 86% in Africa al 25% in Europa e in Asia centrale. All’interno del settore informale, la maggior parte di questi lavori è svolta da lavoratori “autonomi”, ma ciò non significa che i dipendenti abbiano sempre un rapporto di lavoro formale. L’OIL stima che in tutto il mondo, il 40% di tutti i dipendenti lavori in modo informale e la loro quota vada dal 15% in Europa, al 26% nelle Americhe, al 50% in Asia e nel Pacifico e al 57% in Africa. L’occupazione formale e standard esiste limitatamente al settore pubblico, che comprende i servizi di base e parte dell’industria manifatturiera.
Poi c’è il lavoro nella gig economy. Le valutazioni dell’OIL sono precedenti agli effetti prodotti in questo settore dalla pandemia, ma già se ne prevedeva lo sviluppo. “Nonostante le sue dimensioni ancora modeste, l’economia delle piattaforme (o gig economy) è cresciuta in modo esponenziale in molti paesi. Essa solleva una serie di questioni relative al diritto al lavoro e alla protezione sociale, all’organizzazione sindacale e alla contrattazione collettiva, tanto da guadagnare un posto centrale nelle recenti attività dell’OIL. E’ stimato, poi, che negli Stati Uniti la quota dei lavoratori impiegati attraverso le piattaforme digitali come Uber o TaskRabbit sarebbe pari allo 0,5%, includendo nell’analisi tanto i lavori principali quanto quelli secondari. In 14 paesi europei, in media il 2% della popolazione in età lavorativa lavora parzialmente o totalmente online nella cosiddetta gig economy. Analogamente nella maggior parte dei casi, i lavori svolti nel settore delle piattaforme non costituiscono l’occupazione principale dei lavoratori.
L’aspetto probabilmente più rilevante – secondo l’OIL – è il tasso di crescita del settore. Secondo stime lo 0,6% della popolazione statunitense in età lavorativa era impiegata in 30 piattaforme digitali nel 2015, ma il numero di lavoratori che percepiscono un reddito da queste piattaforme è raddoppiato ogni mese nell’autunno del 2015. Uber, la più grande piattaforma di lavoro a chiamata (lavoro on demand), è cresciuta a un ritmo rapidissimo. Dopo essere stata lanciata nel 2010, il numero degli autisti partner di Uber è quasi raddoppiato ogni sei mesi tra la metà del 2012 e la fine del 2015. Questo tipo di lavoro è destinato ad aumentare, sia che si tratti della principale fonte di reddito che di un secondo lavoro, soprattutto tra i giovani.
Mi fermo qui, riservandomi di approfittare della cortese ospitalità de Il Diario del Lavoro per tornare allo studio e ad altri suoi argomenti di particolare interesse. Mi limito ad una sola considerazione: se questi sono gli scenari del lavoro a dimensione internazionale, se queste tendenze intrecciano trasversalmente tutte le economie e i mercati del lavoro, a meno di non credere ad una diabolica congiura di un potere internazionale occulto, sarà opportuno riconoscere la presenza di dati di fatto, magari anche essi in transizione. Nel qual caso occorrerà porsi il problema di come tutelare il lavoro in modo compatibile con i processi economici, tecnologici, competitivi in atto. Pretendere di tornare al c.d. lavoro standard come regola generale, come unica disciplina “legittima” sarebbe come combattere la discriminazione “razziale” dipingendo di bianco le persone di colore.
Giuliano Cazzola