Uno degli elementi più importanti di riflessione è il rapporto tra ciclo economico ed occupazione. Negli anni passati, si è spesso sostenuto che il cambiamento degli assetti economici e del mercato del lavoro conseguente alla globalizzazione a all’innovazione tecnologica desse luogo ad importanti cambiamenti strutturali ed anche di breve periodo delle dinamiche occupazionali. Tali riflessioni hanno portato all’esplicitazione di alcune tesi molto “suggestive” e, ispiratrici di molte riflessioni di sociologia del lavoro e di implicazioni per le policies . Analizzerò brevemente quattro di queste tesi, mediante l’analisi delle evidenze quantitative degli anni tra il 1994 e il 2018, con particolare riferimento agli ultimi 10 anni. Iniziando dalle tre più “quantitative” in relazione all’occupazione per poi passare a quella più connessa alla qualitativà della stessa occupazione.
La prima tesi ha fatto e fa perno su una presunta difficoltà che avrebbe avuto il sistema economico italiano a recuperare il livello di occupazione pre crisi, anche in presenza di politiche economiche sostanzialmente orientate a stimolare e modificare o l’offerta di lavoro, o la domanda mediante interventi legati alla riduzione del costo del lavoro. E ciò aveva come premessa il fatto che si considerassero preponderanti in ogni caso nel mercato del lavoro gli effetti connessi alla bassa crescita della domanda aggregata ed crescita economica in generale. In questo senso si è sostenuto che politiche orientate ad aumentare l’occupazione mediante interventi sul mercato del lavoro, non avrebbero potuto produrre risultati significativi in quanto collocate dentro un vincolo costituito da un quadro di politiche economiche (europee) non espansive e tese a rafforzare il quadro di stabilizzazione finanziaria europea (austerity e vincoli di bilancio). Da ciò si è fatta discendere la conclusione che il recupero occupazione post crisi sarebbe stato lento e lungo nel tempo.
La seconda tesi ha sottolineato invece come peculiarità il prevalere di fenomeni, negli anni 2000, tali da portare ad una riduzione sostanziale del peso del lavoro dipendente, una sorta di declino strutturale del lavoro dipendente a fronte di un possibile emergere di fenomeni di spostamento dell’occupazione nell’area del lavoro indipendente.
La terza tesi ha riguardato sempre la specificità della crisi del 2008 – 2014 e in particolare della successiva ripresa. E’ stato sottolineato come una delle peculiarità di tale crisi fosse l’accentuarsi in essa degli effetti di fenomeni peraltro in corso da alcuni anni, legati al prodursi di una modifica strutturale dei comportamenti della domanda di lavoro tale da condizionare in modo sostanziale e strutturale i livelli di occupazione. La modifica della domanda di lavoro da parte delle imprese si è fatta e fa discendere in particolare dall’accentuazione, come detto proprio negli anni della crisi, di politiche di innovazione tecnologica ed organizzativa mirate a ridurre consistentemente e quindi strutturalmente l’input di lavoro. Da ciò se ne è fatta derivare da parte di molti la valutazione di conseguenze sulle caratteristiche della fase di riassunte nel termine di “jobless recovery” riferendosi ad una ripresa, quella posteriore alla crisi 2008 2014, non in grado di far aumentare proporzionalmente l’occupazione.
Tutte e tre queste tesi non sembrano sulla base dei dati Istat qui analizzati non confermate. E’ altresì importante sottolineare come sia necessario un più ampio approfondimento fatto con un set di dati più disaggregati per arrivare a conclusioni definitive.
Gli andamenti dell’occupazione son ben rappresentati dai dati Istat che, notoriamente, hanno il pregio della “rappresentatività” statistica generale, sono coerenti con le definizioni internazionali e sono gli unici che consentono comparazioni temporali e territoriali realmente significative, a differenza di quelli Inps.
Vediamo gli aspetti principali nei dati più recenti che sottolineano una realtà che può a volte sembrare anche “sorprendente” .
Il numero degli occupati nel 2017 supera i 23 milioni come solo nel 2008 era capitato. Nell’ultimo trimestre del 2017 il recupero occupazionale , dai bassi livelli provocati dalla crisi economica è anch’esso di grande rilievo: la perdita occupazionale provocata in 21 trimestri dalla crisi (1 milione di occupati in meno) è stata quasi tutta recuperata in 17 trimestri (a gennaio 2018 la perdita e completamente riassorbita) con un aumento di più di 926 mila occupati.
Ma ciò che è più rilevante è quello che è accaduto nei lavoratori dipendenti : Il recupero dei livelli occupazionali pre crisi è stato non solo completo ma ha superato ampiamente le perdite della crisi : nel punto più basso della crisi (giugno 2013) l’occupazione dipendente era scesa a 16,6 milioni circa, con una perdita di circa 640 mila unità, nel successivo periodo e fino al gennaio 2018 il numero dei dipendenti è aumentata di 1 milione e 129 mila lavoratori, non solo compensando del tutto la perdita ma producendo quasi ulteriori 500 mila dipendenti ( un aumento pari a quasi l’80% la perdita subita dal giugno 2013 al gennaio 2018).
Questi andamenti hanno prodotto un record : il numero dei lavoratori dipendenti in Italia non è stato mai così alto, nel gennaio 2018 infatti il numero dei lavoratori dipendenti tocca un massimo storico con più di 17.797.930 unità ( ben quasi 500mila occupati in più rispetto al precedente picco dell’occupazione dipendente luglio 2008).
Sia la prima la tesi che sostiene che in presenza di bassa domanda aggregata e bassa crescita economica e di politiche di bilancio restrittive costrette nel quadro UE, (elementi che vi sono innegabilmente stati) la performance occupazionale complessiva non sarebbe stata adeguata , sia la seconda che preconizzava una riduzione del lavoro dipendente non risultano confermate dai dati .
Altro importante elemento è quello connesso alla conclamata spesso tesi secondo la quale saremmo in presenza di una riduzione della capacità della crescita di creare occupazione (jobless recovery).
Ma se guardiamo i dati e misuriamo il rapporto tra aumento dell’occupazione e aumento del Pil (elasticità dell’occupazione) le cose sembrano stare in modo diverso. Dal 2014 ad oggi a fronte di un aumento del l Pil contenuto , l’1,2% in meda annua, l’occupazione complessiva è aumentata dell’1,2% con un’elasticità pari all’87%.
Non solo ma (vedi tabella) l’elasticità sperimentata negli ultimi tre anni è più alta rispetto a tutte le fasi di ripresa e di sviluppo positivo dal 1998 in poi, ma anche rispetto a tutto il periodo di crescita significativa tra il 1975 e il 1991.pMa anche qui il dato relativo ai lavoratori dipendenti è rilevantissimo : la percentuale di aumento dei soli occupati dipendenti (1,7%) è superiore a quella del Pil (1,0%) dando logo ad un’elasticità di ben 146%, che significa che l’aumento del Pil produce un aumento più che proporzionale dell’occupazione.
Risulta incomprensibile come si possa parlare di crescita poco o per nulla influente sull’occupazione, sarebbe forse meglio parlare di “jobfull recovery”.
Il panorama complessivo dell’occupazione sembra più roseo di quanto spesso viene rappresentato . Ma sarebbe altrettanto sbagliato dedurre da questi dati di prospettive occupazionali ormai avviate su sentieri positivi ed in grado di ridurre il tasso di disoccupazione (che pure si è ridotto) in maniera adeguata ,(specie di quella giovanile).
Non vi è dubbio che i risultati non possono essere ascritti in modo acritico alle politiche prevalenti operate sul mercato del lavoro basate su interventi sull’offerta di lavoro (job act) e su interventi di riduzione del costo del lavoro. Non vi è dubbio però che tali politiche hanno contribuito alla Jobfull recovery anche in un quadro di politiche di bilancio di austerity a livello Ue. E c’è da considerare l’effetto delle politiche monetarie espansive della Banca Centrale, anche se hanno agito sulla crescita e non spiegano la dimensione occupazionalmente “ricca” di questa. Le politiche del lavoro hanno quindi avuto un ruolo importante che hanno modificato le stesse convenienze delle imprese e quindi la domanda di lavoro.
Ci sono però altri fattori da analizzare che influenzeranno soprattutto il futuro. Tra questi quello correlato alla qualità del lavoro e del suo mercato è molto importante. L’aumento occupazionale nel lavoro dipendente si è collocato in maniera prevalente (ma non totale) nell’area del lavoro a termine.
Del milione di lavoratori dipendenti in più il 57% è a termine e il 43% a tempo indeterminato. Tale dinamica fa si che nel 2017 la % le complessiva di lavoratori dipendenti che nel 2017 lavorano a tempo indeterminato sia dell’84% , in riduzione rispetto al 2013 quando era dell’86%. Una percentuale in riduzione quindi ma che si mantiene ancora largamente superiore a quella che c’è in tutti gli altri paesi europei . Come si vede nella tabella l’Italia è sopra la media dell’area Euro per presenza di lavoratori a tempo indeterminato e sopra a paesi come Francia, Svezia e Olanda. L’Italia ha visto però ridursi tale percentuale in relativamente pochi anni e quindi l’incremento dei contratti a termine è stato ed è apparso particolarmente accentuato anche se in un contesto di minor rilievo assoluto rispetto agli altri paesi.
In questo contesto il fatto che tale incremento si sia particolarmente concentrato sulla fascia giovanile è l’elemento più negativo in quanto accentua una segmentazione sul mercato del lavoro che produce alti rischi per il futuro.
In questo quadro va anche osservato come invece la crisi abbia contribuito ad accentuare le negative dinamiche già in corso relative al lavoro indipendente.
In definitiva assistiamo ad un rapporto diverso dal passato tra crescita occupazione e mercato del lavoro, e quindi anche le politiche del lavoro come quelle del Job Act e del decreto Poletti sui contratti a termine , quelle a questo premesse e susseguenti come quelle sugli i ammortizzatori sociali , quelle connesse alle in genere alla flessibilità di entrata e uscita dal mercato del lavoro non sono certamente l’unica causa delle performance indicate, ma sono innegabilmente delle innovazioni che hanno prodotto e stanno producendo un quadro di nuovi paradigmi sul mercato del lavoro ma anche sulla crescita. Ma occorre tenere bene a mente anche gli effetti sociali , generazionali che tale processo induce per avere il quadro completo dei chiari e degli scuri della situazione, e per valutare gli effetti di “retroazione” che i processi sociali hanno o possono avere sull’economia. La riflessione da affrontare è su questo quadro ma soprattutto su quello che è davanti a noi, prendendo atto dei rischi e pericoli ma anche delle nuove rilevanti opportunità , usando il passato non per mettere pagelle come si fa all’esame di maturità , ma per capire si quale è lo stato di preparazione e di salute del maturando , ma soprattutto quale è l facoltà alla quale è opportuno che si iscriva lo stesso maturando.